LA RESPONSABILITÁ DELLA BANCA NELL’EROGAZIONE DEL CREDITO

Di Alessandro Parrotta, Andrea Racca -

Cenni e riflessioni. 

Sommario: 1. Un profilo comparativo; 2 Responsabilità extracontrattuale a partire dalla Cass. Sez. Unite 7030/2006; 3. La responsabilità contrattuale del bonus argentarius; 4. Il concorso esterno nei reati fallimentari a seguito di finanziamento.

 1.Le difficoltà del momento storico in cui viviamo pare abbiano trasformato il sistema di finanziamento al quale da sempre le aziende attingono le liquidità necessarie per lo svolgimento delle loro attività imprenditoriali.

Il credito rappresenta, a parere di chi scrive, uno strumento essenziale nella normale attività d’impresa, sia per lo sviluppo, l’investimento e la crescita aziendale, ma anche nei momenti di difficoltà per il sostentamento e la copertura dei costi. Tuttavia la tendenza che si è consolidata negli ultimi anni circa l’inversione del ciclo dei profitti, riducendo il potenziale dello sviluppo autonomo delle aziende, ha rafforzato l’influenza degli enti creditori nell’economia del Paese. Dall’altro punto di vista, la crisi economica che ha colpito in gran parte la piccola media impresa, con l’aumento esponenziale dei fallimenti, ha ingenerato di conseguenza nelle banche l’aumento delle perdite sui crediti alle aziende, complicando i rapporti tra il mondo della Finanza e la realtà imprenditoriale italiana. I recenti casi di cronaca non cessano di mostrare come il rapporto Banca-Impresa sia sempre più teso e ai limiti delle responsabilità penali: istituti di credito implicati a loro volta in importanti crack finanziari e imprese mantenute in vita grazie a discutibili attività di finanziamento.

Questa breve analisi si promette dunque di mettere maggiormente in risalto il profilo di responsabilità della banca in virtù della sua stessa funzione sociale di erogazione del credito[1], la quale deve sempre attenersi ai principi di correttezza e diligenza, tipici della sua attività. A parere  di chi scrive, il rapporto bilaterale di concessione del credito tra istituto e impresa non si esaurisce  in se stesso, ma presuppone un profilo di rilevanza pubblicistica: ovvero l’affidamento del terzo circa la precisa erogazione del credito da cui discende l’affidamento circa la solidità dell’impresa finanziata. Se alla fine del secolo scorso gli istituti di credito sembravano aver acquisito giuridicamente una situazione privilegiata in ordine alle responsabilità nei confronti del cliente e dei terzi, in questi ultimi anni, le vicende giudiziarie dimostrano come i Giudicanti hanno compiuto la scelta di sanzionare in termini di responsabilità il comportamento della banca per gli eventuali danni causati al cliente e ai terzi nell’esercizio dell’attività: l’ingiustificata revoca dell’affidamento, il caso di abusiva concessione di credito, nonché tutti i casi in cui la banca concorra a diverso titolo nei c.d. reati fallimentari.

 Nelle ipotesi di natura civilistica, inevitabile riscontrare un comportamento dell’ente contrario ai principi professionali, per cui a seguito di un’incauta erogazione del credito si può verificare un pregiudizio sia in capo al cliente, a seguito di improvvisa interruzione del credito o di concessione di credito non garantita, sia nei confronti dei terzi (creditori), i quali possono subìre un danno da affidamento, in quanto confidano circa la solvibilità che un affidamento bancario può legittimamente presupporre[2]. Se il rapporto contrattuale tra banca e cliente fa discendere una responsabilità di tal genere, l’istantaneità o la permanenza del comportamento abusivo (improvvisa revoca dell’affidamento o prolungarsi dell’affidamento non garantito) produce di certo un illecito extracontrattuale, che deve essere accertato con riferimento non già al solo danno di natura patrimoniale, bensì al rapporto eziologico tra questo e il comportamento contra ius dell’agente, qualificato da un grado di responsabilità da individuarsi tra il dolo e la colpa[3].

D’altra parte in alcuni ordinamenti europei, quali quello francese o belga, il profilo di responsabilità extracontrattuale della banca non assume di certo caratteri di straordinarietà. Entrambi formulano esplicitamente un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale nel caso di una lesione di un diritto di credito dei terzi, ovvero di quei creditori che a loro volta hanno concesso credito ad un imprenditore non affidabile[4]. Responsabilità che si fonda direttamente sulle disposizioni del codice civile francese all’art. 1382 c.c. che trova un’esatta corrispondenza nel nostro riferimento di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. In questi ordinamenti europei si tende a tipizzare la responsabilità dell’istituto di credito in tre diverse ipotesi, che qualificano precipuamente il grado di responsabilità: i) concessione di credito ad impresa in stato di cessazione dei pagamenti (situazione corrispondente a quanto la legge italiana indica nel termine insolvenza); ii) finanziamento concesso ad un’impresa, anche non in stato di insolvenza, ma con procedimenti non corretti o fraudolenti; iii) concessione di credito, con un procedimento tecnico corretto, ad un’impresa in difficoltà e successivamente sottoposta a procedura concorsuale. Nel primo caso la banca, se era a conoscenza dell’insolvenza, o avrebbe dovuto esserlo usando la diligenza del bonus argentarius, non può di certo andare esente da responsabilità, da graduarsi in base all’elemento soggettivo, presuntivamente a titolo di colpa, mentre a titolo di dolo se viene dimostrata la consapevolezza nella possibilità di arrecare danni a terzi attraverso il finanziamento erogato[5]. Allo stesso modo in caso di procedimento autorizzativo non corretto, la mancata adesione a una regola di condotta nell’espletamento dell’attività dovrà essere valutata tra la colpa e il dolo.

Nel caso specifico di concessione di credito, attuata con procedimenti fraudolenti, la responsabilità dell’istituto si aggrava: la violazione dell’iter amministrativo autorizzativo del finanziamento presuppone la stessa ipotizzabilità del dissesto da ricondursi tra la colpa cosciente e il dolo eventuale, dal momento che la mancata adesione al protocollo valutativo della solidità aziendale implica una responsabilità aggravata per l’istituto di credito. Ciò proprio in virtù del fatto che in tema di responsabilità per illecito, la colpa consiste in un comportamento cosciente dell’agente, che senza volontà di arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di regole o norme di condotta, ogni qual volta manchi la rappresentazione da parte dell’agente secondo il criterio specifico del professionista del settore, circa il verificarsi di un evento dannoso (danno patrimoniale all’impresa o a terzi).

La dottrina d’oltralpe ha molto discusso sul terzo caso, che rappresenta il limite, ove più difficilmente pare possa addebitarsi responsabilità alla banca, circostanza che comunque deve essere valutata caso per caso. Anche infatti nell’ipotesi in cui l’istituto avesse conosciuto lo stato di difficoltà dell’azienda, il problema è valutare se, attraverso il metro di diligenza richiesto per l’operatore del settore, si potesse prospettare il successivo assoggettamento a procedure concorsuali. Nel caso di probabilità, l’assunzione di un tal rischio rientra in un ambito di rischio d’impresa assolutamente lecito (in riferimento ad un operatore economico come la banca) o integra un profilo di colpa cosciente? Ad ogni modo, gran parte degli Autori sono unanimi nel escludere ogni forma di responsabilità della banca in virtù proprio della regolarità della procedura di concessione, che implica già la valutazione dei rischi[6].

Anche l’ordinamento elvetico riconduce ai più generici obblighi di diligenza professionale il comportamento dell’istituto di credito che conceda o revochi abusivamente il prestito, fondando una responsabilità extracontrattuale nel solo caso in cui si realizzino i presupposti previsti all’art. 41 della Legge di complemento al codice civile (C.O.), ovvero che si tratti di un comportamento intenzionale contrario al legittimo affidamento dei terzi. Tuttavia, radicando il profilo di responsabilità ai più generici doveri di diligenza, il dolo anche eventuale, richiedendo una prova specifica, si qualifica in una serie limitata di casi, ovvero nelle sole ipotesi in cui la banca avesse la concreta rappresentazione circa la possibilità di arrecare un danno a terzi con un comportamento  contrario ai principi generici di correttezza e buona fede nell’esercizio dell’attività e l’abbia appositamente accettato.

2.Nella prassi giuridica italiana ha senza dubbio svolto un ruolo essenziale la sentenza Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 7030/2006, che aderendo all’orientamento prevalente tra dottrina e giurisprudenza, ha individuato come oggetto della responsabilità dell’istituto l’artificioso mantenimento in vita di un’impresa sull’orlo del fallimento, suscitando un’errata percezione della realtà finanziaria ed economica con l’effetto di condurre i terzi a contrattare o a continuare a contrattare con la società. La Suprema Corte specifica puntualmente la tipologia di danno inferto, ovvero di un “danno informativo” che il creditore danneggiato dovrà provare autonomamente, facendo presente l’esistenza del nesso causale tra il finanziamento illecito concesso dalla banca e l’artificioso mantenimento in vita dell’impresa sovvenzionata, dimostrando che senza quel finanziamento l’impresa sarebbe di certo fallita. Una concessione di credito estranea alle regole di condotta di corretta amministrazione e diligente erogazione, produce infatti un danno di natura concorrenziale sul mercato, alimentando la presenza di un concorrente che in realtà non avrebbe più potuto partecipare. Il danno di natura concorrenziale, a prescindere dal verificarsi del fallimento, può essere ristorato con l’azione risarcitoria nei confronti sia dell’impresa sovvenzionata, sia nei confronti della banca. La responsabilità addebitabile all’istituto acquista infatti la propria autonomia, connotandosi sotto un duplice profilo: i) l’alimentazione del c.d. danno informativo nel mercato con conseguente protrazione delle attività dell’impresa; ii) alimentare il pericolo di insolvenza in capo ai creditori dell’impresa, con l’eventuale rischio di compromettere il patrimonio residuo da devolvere agli stessi, concorrendo nel ritardare il fallimento dell’impresa in stato di insolvenza.

In tal guisa, il creditore danneggiato, affinché possa validamente procedere con l’azione risarcitoria dovrà provare, oltre all’elemento soggettivo della banca (ovvero che la stessa abbia violato i principi cardine della sua attività di concessione del credito), anche ex art. 1338 cc. di aver egli stesso utilizzato lo stesso metro valutativo nei rapporti con l’impresa insolvente, tanto da non aver potuto accorgersi della difficoltà in cui versava l’azienda[7].

La Corte individua una duplice responsabilità in capo alla banca in ordine al danno subito da abuso di credito: una di natura extra-contrattuale in capo ai terzi, e una di natura contrattuale derivante da un danno diretto cagionato al patrimonio della stessa società fallita. Infatti, nel tentativo di fornire un’adeguata tutela ai creditori danneggiati ai fini della legittimità di proporre un’azione di risarcimento, in ambito di responsabilità aquiliana, non si può esentare dal riconoscere un danno diretto all’impresa come lesione della garanzia patrimoniale generica dei creditori ex art. 2740 cc., rappresentata dal patrimonio del fallito, garanzia diminuita o annullata dal ritardo stesso nel fallimento.

In via estensiva possiamo, infatti sostenere, accettando tale tesi, che tutti coloro che a vario titolo (attraverso concessione di liquidità, inducendo la solvibilità dell’impresa sul mercato [si pensi alla funzione della centrale dei rischi o alle società di rating nelle valutazioni delle società quotate]) permettono o facilitano la ritardata dichiarazione di fallimento, possono essere suscettibili di responsabilità ex art. 2043, in quanto contribuiscono all’aggravamento del dissesto attraverso l’aumento delle passività, l’ulteriore dispersione dell’attivo e la prescrizione delle azioni revocatorie[8]. A tal riguardo, il danno derivante da una concessione illegittima del credito ha quindi sì natura aquiliana, essendo il pregiudizio che segue alla insufficienza del riparto, pur dopo l’esperimento delle azioni esecutive, ma anche natura contrattuale. Il danno da incauto o fraudolenta erogazione del credito, diversamente dalla diminuzione che subisce il patrimonio del creditore per effetto dell’inadempimento, risale all’attività di un soggetto diverso dall’inadempiente, e richiede per il suo accertamento, prima ancora che per la sua liquidazione, l’esperimento delle azioni, per l’appunto di massa, che tendono alla conservazione della garanzia generica. Consegue che le due responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, risalgono a fatti pregiudizievoli distinti ed autonomi, i quali possono dare luogo a distinti eventi dannosi.

La Corte precisa infatti che l’azione risarcitoria di cui si tratta, costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, analogamente alle azioni che traggono origine da atti degli amministratori della società fallita che danneggiano il terzo, ai sensi dell’art. 2395 c.c. Il danno che deriva da siffatta attività andrà, comunque, valutato caso per caso nella sua esistenza e nella sua entità, essendo ben ipotizzabile che creditori che pur hanno diritto di partecipare al riparto non hanno titolo per il risarcimento da danno c.d. informativo, non avendo ricevuto danno dalla continuazione della attività di impresa.

3.A questo punto della trattazione appare doveroso precisare il contenuto specifico della diligenza del c.d. bonus argentarius, che si differenzia da quella del buon padre di famiglia, in virtù proprio della natura professionale del soggetto. In base a tale riconoscimento, ai sensi dell’art. 1117 c.c. comma 2 la banca deve adempiere tutte le obbligazioni assunte nei confronti dei propri clienti con la diligenza particolarmente qualificata dell’accorto banchiere, non solo con riguardo all’attività di esecuzione dei contratti bancari in senso stretto, ma anche in relazione ad ogni tipo di atto o di operazione oggettivamente esplicati nell’attività finanziaria[9]. Ne consegue che le prestazioni della banca dedotte in contratto consistono essenzialmente in un “facere” inerente la raccolta o l’offerta di liquidità. In virtù della funzione economica svolta, le modalità delle obbligazioni assunte debbono sempre rispettare la professionalità insita nel contenuto del facere stesso, richiedente un grado massimo di diligenza nella predisposizione dei mezzi idonei rispetto agli eventi pregiudizievoli comunque prevedibili. Proprio in base ai principi di correttezza così individuati dagli artt. 1175, 1374, 1375 cc., la Cassazione con la sentenza del 13 gennaio 1993, n. 343 poi confermata dalla sentenza 8 gennaio 1997, n. 72 fonda in capo alla banca l’obbligo di risarcire il danno subito dai terzi per l’insolvenza dell’impresa debitrice sovvenzionata, in virtù di una responsabilità extracontrattuale per violazione dei doveri derivanti dal suo ruolo, come pure del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., alle quali il bonus argentarius, con l’intensità propria dello status professionale cui appartiene, è obbligato. Se la responsabilità aquiliana si configura così in virtù di un danno ingiusto provocato contra legem, ovvero contro i principi cardine dell’attività imprenditoriale bancaria, d’altra parte non può negarsi la responsabilità derivante da contratto che, come afferma Scognamiglio, rinviene a seguito di un rapporto il cui proprio riflesso produce una posizione di rilevanza sociale nella prospettiva di solidarietà sociale ex art. 2 Cost[10].

L’ipotesi di responsabilità contrattuale della banca per inadempimento dell’imprenditore indebitamente sovvenzionato deve essere analizzatala non solo sotto il profilo della definizione del rapporto contrattuale, ma soprattutto alla luce del principio di buona fede e dell’obbligo di correttezza contrattuale, ulteriormente rafforzati dal legislatore dapprima con la legge n. 154 del 17.02.1992 e successivamente con il Testo unico (D.lgs 1.09.1993 n.385), rendendo obbligatoria l’adozione della forma scritta per la stipulazione dei contratti relativi a tutte le operazioni e servizi bancari e finanziari[11]. Si individua così precipuamente un dovere di comportamento a carico della banca volto a garantire l’aspettativa di non interruzione dell’affidamento al creditore solido, o se del caso, di adeguamento del flusso finanziario in assenza di sintomi che alterino in maniera grave e definitiva le previsioni del rischio[12], mentre nel caso opposto la non finanziabilità di quel soggetto che non abbia valide garanzie di solvibilità. In tali casi la responsabilità contrattuale discende proprio dal rapporto di contratto, tra l’istituto e lo specifico soggetto sovvenzionato, che viene a trovarsi in una posizione di vantaggio nei confronti della banca, tale da esporla ad un pericolo di danno (la perdita del capitale finanziato), tale per cui il sistema normativo bancario determina un obbligo di protezione patrimoniale della sfera giuridica implicata dalla natura sociale dell’operatore.

  1. All’analisi appena svolta è doveroso far seguire un approfondimento dal punto di vista della responsabilità specificatamente penale, nei casi in cui il finanziamento erogato irregolarmente possa diventare propedeutico alla commissione di alcuni dei reati fallimentari. A parere di chi scrive, la violazione dello standard di diligenza del bonus argentarius pare essere funzionale alla stessa configurazione del c.d. concorso esterno nei delitti previsti agli art. 216, 217 e 223, 224 della legge fallimentare, nonché nelle violazioni previsti dal codice civile agli art. 2621, 2622, 2636 e 2637, nelle modalità che si andranno ad esaminare. Tuttavia, anche ai fini del risarcimento del danno, occorre effettuare una chiara distinzione tra il concorso personale del banchiere o del funzionario, che da solo si ponga in concorso con l’azienda alla realizzazione della condotta penalmente illecita[13]; al caso in cui sia l’istituto di credito, individuato come ente, a partecipare in concorso, avendo erogato il finanziamento secondo un regolare iter e un preciso elemento soggettivo comune al direttivo, creando i presupposti per un’alterazione illegittima delle condizioni patrimoniali dell’azienda[14].

Affinché si possa qualificare giuridicamente tale responsabilità occorre far direttamente riferimento al presupposto del concorso di persone nell’illecito penale ex art. 110 c.p.. Non potendo assumere il ruolo di soggetto attivo del reato, nella possibilità di agevolare la condotta tipica dell’imprenditore, la banca può concorrere quale extraneus, allor quando si realizzano i seguenti presupposti: l’evento oggettivo, il nesso di causa tra erogazione del finanziamento all’evento di danno (ad. es. il fallimento) e sia individuabile in capo alla banca un preciso elemento soggettivo, da qualificarsi tra la colpa e il dolo in base alla tipologia del reato. In sostanza il concorso del c.d. exrtaneus diventa rilevante quanto contribuisce causalmente ad agevolare la condotta del intraneus, nella consapevolezza di compartecipare in una condotta illecita e nella possibilità di arrecare un danno a terzi.

Come anticipato l’erogazione di un finanziamento, nei casi in cui l’azienda sia in una situazione di dissesto può destare rilevanza penale quando questa dazione crei i presupposti per ingannare i soci o il pubblico, permettendo agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti, di esporre nei documenti contabili previsti da legge, fatti materiali non rispondenti al vero, alterando la situazione economica patrimoniale dell’azienda, in modo da indurre in errore i destinatari di tali informazioni (false comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c.)[15], oppure predetto finanziamento permetta di aggravare il dissesto aziendale nel ritardo della dichiarazione di fallimento (bancarotta semplice ex art. 217 L.F)[16].

Proprio nella seconda ipotesi indicata, l’addebito di responsabilità in capo alla banca, per aver agevolato la possibilità dell’imprenditore a compiere operazioni di grave imprudenza ex art. 217 comma 1 n.3, nonché aver partecipato all’aggravamento del dissesto ai sensi dell’art. 217 comma 1 n. 4 (uniche tipologie ove si ammette il concorso esterno nella bancarotta semplice), può, a parere di chi scrive, integrarsi già dalla dimostrazione della violazione dei principi di diligenza professionale, in virtù dell’ammissibilità del reato proprio a titolo di colpa. Gran parte della dottrina in materia, considera infatti ipotizzabile la bancarotta semplice ex art. 217 L.F. n. 3 in presenza di un’operazione di finanziamento volta unicamente a reperire denaro per ritardare il fallimento: operazioni che in situazioni normali sarebbero perfettamente lecite. Secondo tale orientamento la condotta della banca sarebbe sanzionabile quando sia consapevole della situazione di decozione in cui versa l’impresa beneficiaria o possa comunque rappresentarselo. In virtù del fatto che l’ordinamento italiano reputa il fallimento un evento di per sé grave, ipotesi colposa, sia per il soggetto principale (imprenditore), sia del banchiere. La rimproverabilità emerge infatti nella violazione della regola cautelare, che si ravviserebbe nell’imprenditore in una sana e corretta gestione d’impresa volta ad evitare pregiudizi ai creditori e ai terzi, nel banchiere (o nella banca) nei già menzionati principi professionali. L’art. 217 L. F., al comma I n. 3, recita infatti che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento, da cui diviene conseguenza logica e costitutiva il danno al creditore del fallito, a cui può ampiamente concorrere il soggetto che ha favorito tale ritardo, amplificando il profilo di danno producibile.

Per inverso, quanto al concorso dell’istituto di credito nei fatti di cui agli artt. 216 L.F. diviene, invece, assimilabile la duplice configurabilità del concorso ex art. 110 c.p. sia a titolo di colpa, sia a titolo di dolo della banca, individuando la persona fisica di riferimento, in una fattispecie unicamente realizzabile a titolo di dolo. La giurisprudenza non ha infatti mancato di precisare che ai fini della configurazione del concorso nel delitto doloso di natura fallimentare siano necessari: l’incidenza causale dell’azione, la consapevolezza del fatto illecito e della qualifica del soggetto attivo che ha posto in essere il fatto tipico[17] (imprenditore nel caso di bancarotta propria oppure delle altre qualifiche previste da legge nei casi di bancarotta impropria). Nello specifico nel delitto di bancarotta fraudolenta, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare, in primis che sussiste il concorso esterno, sostanziandosi il dolo al compartecipe, nei casi in cui abbia consapevolezza che il patrimonio sociale sia devoluto ad una destinazione diversa da quella individuabile in base alle finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori, anche quando l’agente, pur non perseguendo direttamente tale risultato, tuttavia lo preveda e, ciò nonostante, agisca, consentendo la sua realizzazione. Ne consegue che è sufficiente che l’agente, perseguendo un interesse proprio (anche solo un proprio interesse commerciale), abbia la coscienza e volontà di porre in essere atti incompatibili con gli interessi dell’impresa finanziata, anche se non qualificati da una specifica volontà di cagionare danno ai creditori[18].

Secondo un altro orientamento, invece, al fine della configurabilità del concorso dell’extraneus nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è necessario che sussista la consapevolezza del percettore della somma, versata dall’imprenditore successivamente fallito, in ordine allo stato di decozione dell’impresa da cui il denaro proviene e, quindi, in ordine al rischio cui sono esposte le ragioni creditorie. Presupposto che implica anche al finanziatore lo stesso grado di prevedibilità, ovvero concorre nel reato chi sovvenziona un’azienda in prevedibile stato di decozione, da cui discende il rischio di una serio evento di danno ai creditori.

Il Giudice al fine di una corretta valutazione dell’elemento soggettivo dovrà far riferimento al sufficiente contenuto rappresentativo del concorrente circa il possibile rischio di insolvenza, anche se non qualificato da una specifica volontà di cagionare danno ai creditori dell’imprenditore[19]. La prevedibilità dello stato di decozione assume pertanto una fondamentale importanza proprio nell’individuazione dell’elemento soggettivo dell’extraneus, affinché si possa configurare il concorso. In tal guisa, la sentenza Cass. Penale sez. V n. 16388 del 23 marzo 2011 ha affermato che occorre la prova della consapevolezza che la propria azione sia foriera di danno ai creditori e quindi debba essere accompagnata dalla conoscenza, da parte dell’agente, dello stato di decozione dell’impresa a cui viene sottratto il cespite attivo[20]. Successivamente, lo stesso Giudice ha osservato che non è necessaria la specifica e diretta conoscenza del dissesto della società, affermando che sia sufficiente la semplice rappresentazione[21], e nel caso della banca, in virtù dei principi professionali già precisati, può limitarsi alla mera prevedibilità in astratto. Ragionando in tema di art. 2  Cost., ovvero in merito alla funzione sociale della banca di promuovere l’economia, la prevedibilità di un eventuale dissesto aziendale, connota l’effettiva fraudolenza della dazione nel contesto dell’illecito fallimentare, sia esso un caso di bancarotta o un caso di false comunicazioni sociali. Infatti, l’offesa provocata dal reato non può ridursi alla sola alterazione dell’asse patrimoniale dell’impresa, con conseguente ulteriore diminuzione di consistenza, ma soprattutto al pericolo (prima) e al danno (poi a seguito del fallimento) alle aspettative dei creditori. Questi ultimi, quali persone offese, sono l’indispensabile referente, per cui qualsiasi attività di soggetti terzi idonea ad alterare le condizioni di presenza sul mercato dell’azienda assume rilevanza penale, quando può pregiudicare il diritto dei creditori a soddisfare le loro pretese, alterando sensibilmente la rappresentazione della situazione economica patrimoniale della società.

Pertanto se la condotta pregiudizievole è solo volta a incidere sugli utili prodotti dalla società, pur riducendo l’oggettiva consistenza del patrimonio dell’organismo, non è idonea ad integrare il reato, posto che il profitto generato dalla gestione, ove non reinvestito, appartiene ai soci e non ai creditori[22]. Per la sussistenza del concorso deve, dunque, anche rimandarsi all’esame dell’elemento soggettivo dell’imprenditore o dell’amministratore dell’impresa collettiva, la cui condotta deve essere caratterizzata dall’offensività, ovvero nella sua potenzialità di arrecare un danno sensibile  in capo ai creditori. La Suprema Corte parrebbe così richiamare i giudici di merito ad una verifica sul piano dell’elemento oggettivo del reato, che ricade specularmente su quello soggettivo, della necessaria capacità della condotta contestata, non tanto di diminuire il patrimonio societario, quanto di diminuire la garanzia per i creditori.

Per altro verso, sulla scorta di un’ulteriore individuazione di ipotesi di concorso della banca nella bancarotta impropria ex art. 223 comma 2 n. 2 L.F., inquadrerebbe la vicenda della collusione della banca con l’imprenditore per offrire erronea affidabilità, tra quelle in cui l’operazione dolosa si costituisca come un intervento ideativo/gestorio dell’ente creditizio. Nei casi di imprese quotate vi sarebbero, infatti, le ipotesi in cui la banca partecipi attivamente, pur con diverse modalità, all’organizzazione e al collocamento di obbligazioni, così da consentire a gruppi in palese deficit di liquidità di reperire ingenti risorse sul mercato. L’art. 223 n. 2 L.F. punisce infatti con le stesse pene previste dall’art. 216 L.F. i soggetti ammessi alla configurazione della bancarotta impropria quando hanno cagionato il fallimento dell’impresa «per effetto di operazioni dolose». Con tale riferimento si intende infatti qualsiasi atto o complesso di atti implicanti una disposizione patrimoniale compiuti dalle persone preposte all’amministrazione della società, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti la loro qualità, con l’intento di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto a danno della società o dei creditori, o anche con la sola intenzione di arrecare un danno alla società o ai creditori[23].

Secondo tale prospettiva, la bancarotta per operazioni dolose può essere considerata un delitto preterintenzionale: all’agente si richiederebbe la percezione e la volontà di realizzare un’operazione dolosa non essendo necessario, invece, che il dolo copra l’evento di fattispecie, ovvero il fallimento della società. Il carattere preterintenzionale della fattispecie si ricaverebbe a contrario dell’altra condotta tipizzata nell’art. 223, comma 2, n. 2 L.F., cioè dal cagionamento del dissesto con dolo. Se da un lato l’evento si realizzerebbe per mezzo di azioni dolose, potendo esso anche essere non voluto, nel dolo dell’evento si concretizza la piena coscienza e volontà dell’intera fattispecie di danno. Tutte le attività od operazioni, di per sé già dolose, sarebbero già integrate nella fattispecie, in virtù di una progressione criminosa che si esaurisce con l’evento. Per cui assume grande rilevanza la condotta principale, ove graduare anche quella del concorrente esterno, potendo ritenere che un finanziamento, magari attuato senza una scrupolosa e vigile disamina, in virtù di un rapporto di fiducia con l’impresa, ben qualificandosi come un presupposto non costituente reato, possa assumere la sua rilevanza a seguito dell’evento di danno (fallimento), che produce inevitabilmente conseguenze negative in capo ai creditori[24]. Questo proprio in virtù della riforma introdotto con il D.lgs 61/2002 che mutando la fisionomia della bancarotta da reato societario a reato fallimentare, rivendica un’identica sanzione in considerazione dell’evento comunque realizzato e di un concetto di prevedibilità che deve essere tipico sia dell’imprenditore, sia dei soggetti previsti ex art. 223 L.F., sia dell’extraneus che svolge attività professionale come la banca. Pertanto, in virtù del divieto di analogia in ambito penale le ipotesi di concorso richiedono per naturale configurazione il cagionamento del fallimento attraverso la realizzazione di una condotta tipica tra quelle tassativamente indicate negli articoli esaminati. Per cui, in considerazione del fatto che l’evento di danno è sempre il fallimento, che discende inevitabilmente da un pregresso stato di decozione dell’impresa, nell’elemento oggettivo della condotta della banca, in qualità di extraneus nei reati fallimentari, una violazione della regola cautelare che impone alla stessa una valutazione stringente dei rischi di perdita di capitale a seguito di finanziamento a soggetti non solvibili.

Interessante è, ma sarà oggetto di altro studio, verificare l’interazione tra tali fattispecie e l’efficacia preventiva dei MOG ex 231/2001, collegato alle relative funzioni e posizioni di controllo dei professionisti in ambito di Governance.

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[1] Funzione che si può legittimare anche in base al disposto costituzionale dell’art. 2, in virtù di un’attività non solo volta allo scopo imprenditoriale e di erogazione di servizi, ma anche a promuovere lo sviluppo aziendale e

imprenditoriale della nazione.

[2] L’affidamento dei terzi deriva, a parere di chi scrive, dalla stessa natura contrattuale della concessione del credito, che si fonda su un rapporto fiduciario tra Banca e Cliente, che presuppone che la solidità del soggetto a cui viene concesso un prestito in base a garanzie circa il rientro. Nel caso in cui il rapporto di concessione non si fondi su un vincolo fiduciario, il danno subito dai terzi in caso di dissesto del impresa cliente ha natura aquiliana, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno cioè inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, derivante in primis dal dovere generico di lealtà e correttezza in capo alla banca.

[3] Cfr. Cass. 20.12.2000  n.16009 in motivazione circa la natura del danno extracontrattuale.

[4] Con le codificazioni dell’Ottocento si apre, nei paesi dell’Europa Continentale, e nonostante la base comune romanista, una netta divaricazione fra il modello francese, adottato dal Code Napoléon del1804, e il modello tedesco, elaborato dalla pandettistica e confluito alla fine del secolo nel BGB. Il primo opta per la atipicità dell’illecito, innovando rispetto al diritto romano, il secondo per la tipicità dei casi di responsabilità extracontrattuale restando maggiormente fedele alle fonti romanistiche.

[5] Vd. Cass. Pen Sez. V n. 32352/2014, che ampiamente si richiamerà nel prosieguo.

[6] GAVALSA E STOUFFLET, Droit de la Banque, PUF, Paris 1974, cfr. pagg. 583 ss.; G. MOLLE, I contratti bancari, Giuffré, Milano 1981.

[7] Il creditore danneggiato se anteriore alla concessione del credito dovrà provare che ove l’insolvenza non fosse stata dissimulata, avrebbe in concreto attivato tutti i rimedi  predisposti dall’ordinamento al fine di evitare o ridurre il danno, mentre se è posteriore alla concessione, dovrà provare che senza il finanziamento  illecito non avrebbe stipulato contratti con l’impresa. Cfr. Cass. Civ. Sezioni unite n. 7030 del 28/03/2006.

[8] Osserva ancora la Corte nella sent. 7030/2006 che la abusiva concessione del credito per perfezionarsi e produrre pregiudizio, non deve essere collegata di necessità all’evento fallimento, essa infatti rimane illecita e dunque possibile fonte di pregiudizio aquiliano, ancorché non venga seguita dal fallimento ed addirittura prima ancora che questo si verifichi.

[9] Cfr. Cass. civ. sez. I, sent. n. 13777 del 12/06/2007.

[10] C.SCOGNAMILIO, Ancora sulla responsabilità della banca per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Banca, borsa e tit. Milano 1997, cfr. pag.655.

[11] In tema di contratti bancari il D.lgs 385/1993 oltre a inserire l’obbligatorietà della forma scritta di tutti i contratti bancari, sempre per rafforzare in capo agli istituti di credito l’osservanza dei principi c.d. fondativi di tutta l’attività bancaria, ha anche reso obbligatori i principi di trasparenza e chiarezza delle clausole e delle informazioni bancarie, oltre a definire con precisione il “costo globale” del credito, le modificazioni contrattuali, allo ius variandi, e mettendo fine alla c.d. fideiussione omnibus, ovvero della garanzia illimitata.

[12] Per quanto riguarda l’interruzione del credito da parte dell’istituto, esso può considerarsi abusivo, quindi far nascere una responsabilità contrattuale della banca, in tre distinte ipotesi: a) il rifiuto di adeguamento della linea creditizia in atto (inadeguatezza della linea di credito), la cui unica conseguenza è il diritto a favore dell’impresa sovvenzionata alla risoluzione del rapporto, nonostante il termine si debba ritenere fissato a favore di entrambe le parti (art. 1816 cc.); b) la mancata tolleranza degli sconfinamenti, la banca se permette l’esecuzione di ordini di pagamento oltre alla provvista concessa, occorre verificare, alla luce dei richiamati principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, se la stessa avesse creato un’aspettativa alla continuazione nell’erogazione del credito; c) recesso ingiustificato dell’apertura di credito, in cui il comportamento della banca si traduce nell’interruzione di una situazione oggettiva giuridicamente formalizzata. In tal guisa, l’esistenza dei presupposti per un’eventuale responsabilità della banca per il recesso del contratto è la presenza o meno della giusta causa, in mancanza della quale il comportamento della banca potrebbe assumere quelle connotazioni sufficienti a qualificarlo abusivo.

[13] Di recente, poi, la Suprema Corte è stata chiamata a giudicare della penale responsabilità in punto di bancarotta per effetto di operazioni dolose – tra gli altri – del direttore di filiale e del direttore generale di una Cassa di Risparmio. Entrambi erano accusati di avere agevolato l’impresa in seguito fallita (compagnia assicurativa) – previo concerto con un amministratore della medesima e con un terzo soggetto – a reperire liquidità utile per la costituzione di un fondo, con il quale mendacemente rappresentare la provvisoria copertura di riserve tecniche in precedenza distratte, e, di conseguenza, tranquillizzare il relativo ente di controllo (Isvap); con il risultato di aver ritardato, a detrimento dei creditori, l’apertura della procedura concorsuale o il ripristino (tramite azione di responsabilità verso gli amministratori e recupero della liquidità da poco sottratta) dell’equilibrio finanziario della società (Cass. pen. sez. V, n. 17690/2010).

[14] Caso tipico di compartecipazione dell’ente fu il c.d. “Caso Parmalat”, nel quale vennero imputati alcuni dirigenti di istituti di credito, rei di aver concorso nella bancarotta impropria ex art. 223 comma 2 n. 2 L.F. “per aver orchestrato in concorso con il debitore operazioni finanziarie ai danni dei piccoli risparmiatori”; cfr. Cass. Sez. V, n. 27367 del 26.04.2011 – dep. 13/07/2011, Rosace, Riv. 250409.

[15] A. PARROTTA- A.RACCA, La riforma del reato di false comunicazioni sociali. Dubbi interpretativi e applicazioni concrete, in Rivista 231, intervento settembre 2015/1, Torino 2015; www.rivista231.it.

[16] L’impostazione giuridica italiana conosce infatti due distinte fattispecie di bancarotta: la semplice ex art. 217 L.F., nella sua forma propria e nella sua forma impropria ex art. 224 L.F. (quando il soggetto attivo sono gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e anche i liquidatori) e la bancarotta fraudolenta ex art. 216, che sanziona le condotte dolose che mediante distruzione, dissimulazione, occultamento e falsità cagionino il fallimento dell’impresa, anche nella sua forma collettiva, qualificando il delitto di bancarotta fraudolenta impropria ex art. 223 L.F. Il reato in oggetto, il più classico in materia fallimentare, si presenta infatti nella sua fattispecie come a forma libera, nella quale il fallimento assume la natura di evento di danno, inteso non in riferimento alla sentenza dichiarativa, bensì al presupposto materiale della dichiarazione medesima e, cioè al dissesto dell’impresa, quale come fenomeno naturalistico costituisce elemento materiale della condotta. E. CORUCCI, La Bancarotta e i reati fallimentari, Giuffré, Milano 2013 cfr. pgg. 195 e ss. G. INSOLERA, La responsabilità penale della banca per concessione abusiva di credito alla impresa in crisi, in Giur. Comm., 2008, cfr. pag. 853.

[17] Cass. Pen. sez. V, 26 giugno 1990, in Giust. Pen. 1991, II, 645.

[18] Cfr. Cass. Penale, Sez. II sent. N. 43171 del 15.10.2008

[19] Cfr. Cass. pen. Sez. V, sent. n. 41333 del 27.10.2006. Naturalmente il grado di prevedibilità dovrà essere desunto dallo stato economico patrimoniale dell’azienda al momento della richiesta del finanziamento e al grado di accuratezza delle verifiche patrimoniali di solidità e garanzia operate dall’istituto. Nel caso in cui la banca dimostri di aver regolarmente seguito un protocollo valutativo dei rischi nell’erogazione del credito, ciò potrebbe di per sé escludere l’elemento soggettivo, salvo prova contraria.

[20] Cfr. Cass., Sez. V, 22 aprile 2004, Bertuccio, CED Cass. 228905.

[21] Cass. Sez. V, 13 gennaio 2009, Poggi Longostrevi, n. 243162.

[22] Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2009, Ferrari, Ced Cass., rv.243612

[23] AMBROSETTI, I reati fallimentari, in “Diritto penale dell’impresa”, Zanichelli 2012, cfr. pag. 195.

[24] Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato che tra le condotte che, pur non costituendo reato, possono integrare l’illecito penale in oggetto sono i fenomeni di sviamento della clientela e di svuotamento del patrimonio societario di quegli elementi costitutivi della sua capacità produttiva che ne definiscono l’avviamento (Cass. Pen. Sez. V sent. N. 9813 del 22.03.2006). Tuttavia, per evitare qualsiasi estensione, è successivamente intervenuta precisando che la nozione di operazioni dolose, in termini di ampia accezione, prescinde da qualsivoglia riferimento a fatti costituenti reato o comunque illeciti, in chiave civilistica, per ricomprendere in essa qualsiasi comportamento del soggetto agente (tra quelli espressamente indicati dallo stesso art. 223 L.F.), che concretizzandosi in un abuso o in un’infedeltà delle funzioni e nella violazione dei doveri derivanti dalla relativa qualità, cagioni lo stato di decozione della società, con pregiudizio della stessa, dei creditori, dei soci, dei terzi interessati (Cass. Pen. Sez. V, sent. 38728 del 23.09.2014).

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