Corte Costituzionale, 15 novembre 2017 (udienza 26 settembre 2017), sentenza n. 239

Di Domenica Loredana Novia -

Corte Costituzionale, 15 novembre 2017 (udienza 26 settembre 2017), sentenza n. 239

Presidente Grossi, Redattore Lattanzi

 

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 c.p.p., «ove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA» sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost.

La questione era stata sollevata dalla Corte d’assise d’Appello di Roma secondo cui la disciplina censurata, nella parte in cui non prevede il rispetto delle garanzie difensive anche per le attività di «prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA», violerebbe il diritto di difesa ed il anche il principio ispiratore del giusto processo consacrato nell’art. 111 Cost., secondo cui la prova deve formarsi in contraddittorio tra le parti.

La Consulta, facendo propria la distinzione concettuale operata della Corte di Cassazione tra il rilievo e l’accertamento tecnico (il primo comprende tutte le attività volte alla raccolta o al prelievo dei dati pertinenti al reato, il secondo il loro studio e la loro valutazione critica), ha ritenuto priva di ogni fondamento la tesi del giudice rimettente secondo cui il prelievo di tracce biologiche avrebbe caratteristiche tali da essere assimilato ad un accertamento tecnico preventivo (e non ad un rilievo) tanto da richiedere le medesime garanzie difensive.

La Corte ha affermato, inoltre, che l’attività di rilievo o di prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA ha natura di atto di indagine ed il suo peculiare oggetto non giustifica la sottoposizione ad un regime complesso come previsto dall’art. 360 c.p.p., costituito dalla nomina di un consulente, dall’avviso all’indagato, alla persona offesa e ai difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico, dalla possibilità per l’indagato di promuovere un incidente probatorio, con divieto per il pubblico ministero di procedere agli accertamenti «salvo che questi, se differiti, non possano più essere utilmente compiuti».

Non risulta essere condivisibile il distinguo operato dalla Corte di Cassazione che la consulta rende proprio. I rilievi e gli accertamenti sono istituti connotati da una elevata spendibilità probatoria, avendo un regime di utilizzabilità ampio e variegato che consente loro di incidere sin da subito sulla vicenda giudiziaria indirizzando le indagini, fondando provvedimenti cautelari, determinando le decisioni in merito ai riti alternativi, fino a divenire prova in dibattimento per segnare sempre più spesso l’esito delle decisioni. Il che li rende una cassa di risonanza di eventuali difetti e disfunzioni. La tradizionale distinzione tra i rilievi e accertamenti – già messa in crisi da un tertium genus a basso quoziente di determinatezza (le operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche ex art 348, comma 4, c.p.p.) – smarrisce la sua linea di confine. La realtà sta assottigliando progressivamente la linea di demarcazione tra i due istituti, con evidenti ricadute sull’applicazione delle norme e sulle relative garanzie.

Due sono i fattori scatenanti il cambiamento: la crescente commistione tra il dominio della tecnica e quello della scienza nelle indagini e la formazione specialistica della polizia giudiziaria. Partendo dal primo fattore, se la scienza può essere definita un metodo di conoscenza che prende di mira la realtà al fine di descriverla e di spiegarla enucleando una regola sperimentata e controllabile, allora le investigazioni penali oggi sono sempre più permeate di scienza. Tanto ciò per due motivi. Intanto, perché le operazioni un tempo considerate solamente tecniche, nel senso empirico del termine sono compenetrate dal sapere scientifico, ovvero, sono frutto di applicazioni teoriche e necessitano di conoscenze e giudizi analitici per essere poste in essere. Il secondo motivo coinvolge soprattutto le indagini sulla scena del crimine. Nel corso di un sopralluogo giudiziario, un tempo riservato ai soli rilievi, le attività di ricerca ricorrono anche a risorse scientifiche, sia per l’analisi delle qualità intrinseche della traccia direttamente sul campo, per mezzo di apparati campali, che per lo studio diretto della morfologia di alcune tracce (per esempio la BPA), o per lo stesso studio ragionato delle tracce allorquando fa uso del metodo scientifico abduttivo.

La Consulta, inoltre, al fine di giustificare la infondatezza delle questioni sollevate, pone un esempio, ovvero considera l’attività di prelievo di capelli o di peli rinvenuti in posti sotto l’aspetto probatorio significativi non si differenzia dal prelevamento di altri reperti e non ci sarebbe ragione di effettuarlo con le forme previste dall’art. 360 c.p.p., come dovrebbe avvenire se si accogliesse la richiesta del giudice rimettente, diretta a rendere applicabile tale disposizione a tutte «le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA».

L’esempio operato dalla Consulta e posto a corredo della propria pronuncia non appare tuttavia calzante.

Si pensi alle operazioni come l’esaltazione delle impronte papillari o le fotografie. L’attività di esaltazione delle impronte potrebbe consistere in un mero rilievo stante l’impiego di un pennello e l’attività di esaltazione di una traccia, ma in ragione di una moltitudine di tecniche e materiali a disposizione degli investigatori, si tramutano in un’attività accertativa vera e propria, non più esperibile dall’uomo comune richiedendo specifiche competenze e una elevata qualificazione atte a consentirgli di formulare giudizi e valutazioni in ordine alla tecnica e alle procedure elettive da applicare. Basti pensare, tra l’altro, che un semplice contatto o anche un’impronta papillare potrebbero rilasciare un contenuto sufficiente tale da consentire addirittura la tipizzazione del DNA. Di qui, la scelta della metodica da utilizzare per l’ottimale esaltazione delle impronte diventa determinante ai fini dell’intero accertamento penale. Il rilievo fotografico, da par suo, impone il rispetto di una serie di precauzioni e prescrizioni tecniche il cui mancato rispetto incide visibilmente sul risultato dell’operazione. Uno stesso oggetto, ad esempio, fotografato con la tecnica del fill-in (con una breve emissione luminosa che chiarisce le ombre indotte dalla luce naturale) consente di riempire di luce alcuni campi che, diversamente, non sarebbero catturati dalla fotografia, ad evidente detrimento della memorizzazione di tutto quanto contenuto in una scena.

Venendo al secondo fattore, la formazione specialistica della polizia giudiziaria appartiene al noto che molte delle indagini tecnico-scientifiche, dal sopralluogo alle più complesse analisi da laboratorio, siano condotte in maniera pressoché esclusiva dagli specialisti della Polizia scientifica e dai reparti di investigazione scientifica dell’Arma dei Carabinieri. Pertanto, i rilievi diventano atti altamente specialistici che non hanno nulla a che vedere con i vecchi rilievi dattiloscopici e fotografici. A questo punto, il compito dell’interprete non è così facile quando deve comprendere cosa sia un rilievo e quando deve distinguerlo da un accertamento. Molto spesso, inoltre, le operazioni tecniche sono composte da entrambi i momenti esplorativi che, per la vicinanza temporale della doppia esecuzione e per essere compiuti dallo stesso soggetto, non sono facilmente distinguibili.

Tornando alla sentenza in esame, a conclusione del suo ragionamento, la Consulta lascia uno spazio aperto quando afferma che  non esclude che tale prelievo, come altre operazioni di repertazione, richieda, in casi particolari, «valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’altro da eseguire poi sul reperto prelevato».

Come ha, infatti, rilevato la Corte di Cassazione, possono verificarsi situazioni in cui per la repertazione del campione biologico necessario agli accertamenti peritali si debba ricorrere a tecniche particolari e «[in] tal caso anche l’attività di prelievo assurge alla dignità di operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche e dovrà essere compiuta nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica» (Corte di cassazione, sezione seconda, 27 novembre 2014, n. 2476/2015).

Nonostante questa apertura, la Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 360 del c.p.p., «ove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA», sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’Assise d’appello di Roma.

Si tratta di situazioni abbastanza ambigue che suscitano infatti problemi di non facile soluzione normativa. Nel dubbio si dovrebbe optare per la soluzione più garantista, riconoscendo la natura di accertamento sia al rilievo che non presenta solo un contenuto percettivo e meccanico che alla doppia operazione tecnica. A conforto di tale tesi sovviene lo stesso legislatore che, nell’art. 220 c.p.p., ricomprende nell’oggetto della perizia sia le attività volte ad acquisire dati, sia le valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.

Alla luce di tutto ciò la valutazione andrebbe compiuta caso per caso, per cui, in base a quanto sinora osservato, a nostro avviso, il caso sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale meritava, invece, accoglimento.

Scarica il documento in PDF Corte Costituzionale, 15 novembre 2017 (udienza 26 settembre 2017), sentenza n. 239

Tag:, , ,