I “confini mobili” dell’associazione per delinquere di stampo mafioso ovvero della cd. concezione antropomorfica della norma penale
Le considerazioni che seguono prendono spunto da una parte rilevante della sentenza di primo grado relativamente al processo cd. di Mafia Capitale .
Come è noto, detta sentenza ha derubricato l’originaria imputazione di 416-bis in due distinte fattispecie di associazione per delinquere semplice, l’una relativa al mondo degli affari e dunque alla corruzione e l’altra attinente più specificamente alla criminalità organizzata.
Va però rilevato che ovviamente non solo gli imputati, visto il notevole livello di pena in genere irrogato dalla sentenza agli stessi, ma anche la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma ha impugnato la sentenza stessa. L’appello della Procura riguarda soltanto la questione di diritto, se cioè sia configurabile o meno l’originaria imputazione di cui all’art. 416-bis c.p..
Premesso quanto sopra, ciò che qui interessa evidenziare è, tuttavia, la motivazione a livello giuridico che ha indotto i giudici di primo grado alla indicata derubricazione, che infatti è avvenuta soprattutto perché si è rilevato nel corso delle motivazioni medesime che il dare spazio alla “riserva di violenza”, “intesa come violenza solo potenziale, consapevolmente prefigurata dagli associati, ma rivolta al futuro, condurrebbe ad una interpretativa estensiva non ammissibile – senza incorrere nella violazione del principio di legalità (nullum crimen nulla poena sine lege) oltre i limiti già ampi indicati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alle sole mafie indicate”.
Addirittura risulta rilevante la chiusa sul punto cui giungono i giudici di prime cure, che, conviene pertanto riportare testualmente: “in conclusione, estendere ancora l’interpretazione della norma fino ad includervi anche il concetto di riserva di violenza per le mafie non derivate, condurrebbe il Tribunale ad una operazione di innovazione legislativa della fattispecie criminosa, innovazione che – per quanto auspicabile – si collocherebbe inevitabilmente fuori dell’ambito della giurisdizione” (p. 3057).
Questo importante stralcio della motivazione in diritto della sentenza che ha concluso il processo di primo grado di Mafia Capitale, che, non a caso, è stata firmata da tutti i componenti del Collegio, a dimostrazione evidentemente della condivisione unanime di una decisione così coraggiosa, merita di essere segnalata perché appare inserirsi perfettamente nell’ambito della dottrina della separazione dei poteri di montesquieana memoria.
Una sentenza siffatta, tuttavia, dai sempre più numerosi seguaci della cd. giurisprudenza giuscreativa potrebbe essere qualificata addirittura in chiave retrò, nel senso quasi di riecheggiare l’antica concezione del giudice “bocca della legge”.
Questa impressione, tuttavia, a nostro avviso, si dimostra decisamente fallace giacchè in realtà i giudici di prime cure hanno posto in essere la fondamentale opera di sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta, ma si sono resi conto che, per rispettare la littera legis, evidentemente che nella loro ottica continua a costituire una norma precettiva e non puramente programmatica , fosse necessario una interpretazione di carattere strettamente letterale.
Questo indirizzo espresso dai giudici di prime cure, e che trova una importante sponda nell’orientamento ancora maggioritario della Suprema Corte di Cassazione , è tuttavia stato poco tempo dopo contraddetto da una importante sentenza della Cassazione che ha invece annullato con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva condannato il clan ……. di Ostia per il delitto di cui all’art. 416 e quindi disconoscendo il metodo mafioso .
In particolare, nelle considerazioni in diritto, la sentenza della Cassazione si colloca nell’alveo di quella giurisprudenza di legittimità che, in fattispecie di mafia non “tradizionale”, ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, ritiene che “la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita tanto l’incolumità personale, quanto anche o soltanto le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale (sez. VI, n. 24535 del 10 aprile 2015, Mogliani e altri, rv. 264126). “Nello schema normativo previsto dall’art. 416-bis c.p. non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo delle persone; rientrano anche piccole “mafie” con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone), non necessariamente armate” (corsivo aggiunto).
La sentenza continua aggiungendo che “anche una sola condotta considerata in rapporto alle sue specifiche modalità ed al tessuto sociale in cui si esplica può esprimere di per sé la forza intimidatrice del vincolo associativo” (Cass. Sez. VI n. 1793 del 3 giugno 1993, dep. 11 febbraio 1994, rv 198577).
Quanto, infine, alla condizione di omertà, secondo questa sentenza della Suprema Corte, non è affatto necessaria una generale e sostanziale adesione alla sub cultura mafiosa, “ma basta che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso”.
In detta sentenza si può anche rilevare un’ulteriore “svalutazione” della forza di intimidazione, che, infatti, può esplicarsi anche mediante mezzi semplici come minacce di percosse rispetto a soggetti che non siano in grado di contrapporre valide difese (Cass. Sez VI, n. 35914 del 3 maggio 2001).
La logica conclusione di questa assai diversa interpretazione riguarda il cd. controllo del territorio, nel senso che sempre secondo la Suprema Corte “non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice” (Cass. Sez. II, n. 24851 del 4 aprile 2017, Garcea e altri, rv. 270442).
Orbene, dal raffronto tra la sentenza che ha concluso il primo grado nel processo di Mafia Capitale e quella della Suprema Corte relativa al clan ……, pur nelle ovvie differenze territoriali, possiamo però individuare due approcci ermeneutici molto diversi in rapporto al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e soprattutto due distinti modi di intendere il valore della littera legis.
Secondo la sentenza di Mafia Capitale, la littera legis continua a possedere un valore cogente, ovviamente non nel senso neopositivista di un’applicazione pedissequa della stessa, ma della necessità di una sua interpretazione, che tuttavia non travalichi, ai sensi degli artt. 12 e ss. delle disposizioni sulla legge in generale, il senso ed i limiti della littera stessa.
Non a caso nella sentenza di Roma Capitale si sottolinea la circostanza per cui il legislatore ha utilizzato nel terzo comma del art. 416-bis c.p. l’indicativo “si avvalgono”, che non può non stare a significare come sia la forza di intimidazione che le condizioni di assoggettamento ed omertà conseguenti devono essere in concreto verificate, per cui il reato è da qualificarsi di danno e non già di pericolo.
Secondo, invece, la sentenza della Suprema Corte nel caso …….., assistiamo ad un’evidente svalutazione dei requisiti di fattispecie dell’art. 416-bis c.p., ad esempio quando si afferma che l’associazione per delinquere di stampo mafioso può essere costituita anche soltanto da tre persone, il numero esiguo delle quali rende francamente problematica la realizzazione delle condotte indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p., il che costituisce un sintomo di quello che si osservava in precedenza, cioè a dire che per quest’ultimo orientamento della giurisprudenza la norma di legge è un punto di partenza e non di arrivo e soprattutto che compito del giudice penale non è quello classico ed esclusivo di sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta , ma, al contrario, quello di far aderire possibilmente la fattispecie astratta, estendendola oltre misura, al fatto in concreto verificatosi .
In tal modo, però, la giurisprudenza assume inevitabilmente una funzione “giuscreativa”, perché travalica la littera legis, dando alla stessa un significato non suo proprio, ma fortemente condizionato dalla “precomprensione dell’organo giudicante” .
Le ragioni di tale fenomeno sono probabilmente molteplici, ma, a nostro avviso, possono ridursi al fatto della sempre più scadente qualità della lex scripta, che infatti molto spesso, come è stato anche di recente rilevato, si dimostra più che altro un “abbozzo di legge” e che quindi inevitabilmente richiama l’intervento della giurisprudenza per completare l’opera di creazione e stabilizzazione del diritto che il legislatore evidentemente non è stato in grado di compiere .
Un’altra ragione di questa sostanziale crisi del principio della divisione dei poteri è una diretta conseguenza di questo stato di cose, nel senso che ovviamente, quanto più uno dei poteri dello Stato è in crisi come quello legislativo, tanto più assume un peso maggiore un altro potere come, nel caso di specie, quello giudiziario, tanto è vero che di recente Massimo Donini ha identificato nella magistratura i “guardiani dell’etica pubblica” .
In questa situazione, non appare di grande aiuto nemmeno la stessa dottrina penalistica, perché ha perso quella funzione di guida culturale che le veniva riconosciuta almeno fino agli anni ’70 dello scorso secolo, tanto che si è smembrata in una serie di rivoli e di controtendenze che ne hanno minato la forza unitaria e cogente.
Va, infine, sottolineato come la stessa giurisprudenza italiana si trovi da qualche tempo a dover fare i conti con la giurisprudenza comunitaria, che già varie volte ha sconfessato la giurisprudenza nostrana, ed in particolare è ancora in discussione il punto fondamentale del se la giurisprudenza comunitaria debba o no prevalere sulla giurisprudenza dei singoli Stati dell’Unione Europea .
Queste ci sembrano le ragioni di tali due diverse modalità interpretative della norma penale, che danno luogo a due distinte metodologie, che ormai confliggono apertamente, tanto è vero che recenti tentativi di trovare un equilibrio fra queste opposte “ideologie”, appaiono da un lato particolarmente meritevoli, ma, dall’altro, almeno a nostro giudizio, non sembrano condurre ad una reale “pacificazione” .
Una volta tentate di individuare le complesse ragioni dell’attuale crisi della divisione dei poteri dello Stato, crediamo che risulti più utile, attraverso l’utilizzazione di una metafora, evidenziare le motivazioni che militano, a nostro avviso, contro la proliferazione della giurisprudenza giuscreativa.
Per compiere ciò, attraverso la suddetta metafora, immaginiamo che la norma penale possa essere equiparata ad una persona. Se così è, evidentemente anche la norma penale ha una sua data di nascita e, se è pur vero che la norma penale medesima, come del resto pure la persona umana si sviluppa e cresce, possiede così una dimensione assai diversa da quella della sua nascita.
Qui però, almeno a nostro avviso, sorgono i problemi, perché i tentativi di estendere oltre misura la littera legis, già interpretata in chiave evolutiva dalla giurisprudenza, rischia di far assomigliare la norma stessa a quei trattamenti estetici cui ricorrono taluni, cercando di modificare artificialmente il proprio aspetto fisiognomico.
Si va con ciò dalla chirurgia estetica, sino a trattamenti meno invasivi come il botulino (filler), sino a trattamenti ancor meno invasivi quali la tintura dei capelli, che si badi non riguarda soltanto l’elemento femminile, ma attualmente trova sempre maggiori adepti anche nel genere maschile.
In tal modo, però, non v’è chi non veda l’artificiosità di tali pratiche, che evidentemente cercano di fornire un aspetto alla persona diverso da quello reale.
Questa diversità, però, talvolta può risultare controproducente, perché, ad esempio, è noto il caso di cronaca di quell’attrice che diversi anni orsono, essendosi fatta rifare con metodi evidentemente ancora antiquati il seno, le scoppiò durante un viaggio aereo.
Con ciò vogliamo significare che un fenomeno simile sembra verificarsi anche rispetto alla norma penale, giacchè, se la giurisprudenza continua ad estendere in chiave cripto-analogica la norma incriminatrice, adattandola alle nuove circostanze venutesi a creare, si verifica il fenomeno di cui stiamo trattando, relativo proprio al caso dell’art. 416-bis c.p. che, sorto nel 1982 con riguardo, in particolare, al “tipo normativo d’autore” del mafioso, attualmente trova difficoltà ad essere esteso come paradigma legislativo alle cd. mafie silenti del centro e del nord Italia.
Per operare questo tipo di estensione, la giurisprudenza è “costretta” nel silenzio “assordante” del legislatore, inevitabilmente ad un’opera di riduzione di significato dei requisiti strutturali della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., soprattutto nel senso di rendere i requisiti non più in atto bensì soltanto in potenza.
Con ciò però, come avviene secondo la metafora dei trattamenti estetici, ci troviamo di fronte ad una nuova norma, in quanto il reato in primo luogo non è più di danno bensì di pericolo ed in secondo luogo lo svilimento dei requisiti strutturali di cui al terzo comma del 416-bis si accompagna di recente alla nuova edizione del codice antimafia ove non a caso il reato di cui all’art. 416 c.p. diventa l’anello di congiunzione per applicare le misure di prevenzione patrimoniale anche ai delitti dei p.u. contro la p.A..
In altri termini, sembra di poter rilevare come il delitto di associazione di tipo mafioso stia subendo un’opera di trasformazione, dal modello arcaico delle mafie tradizionali, dedite sostanzialmente alla violenza in un melieu ancora di tipo rurale, ad un modello molto diverso, di carattere imprenditoriale, nell’ambito del quale è evidente la svalutazione degli stessi concetti di intimidazione, assoggettamento ed omertà, che devono infatti sussistere ma solo in potenza perché evidentemente, come dimostrerebbe proprio il processo di Mafia Capitale, ormai le organizzazioni criminali sono soprattutto dedite all’attività di corruzione dei pubblici poteri.
Così operando, però, abbiamo decisamente trasformato la norma base di cui all’art. 416-bis del codice penale e ciò spiega quindi la resistenza di settori qualificati della giurisprudenza che non per questo possono essere definiti “conservatori”, che invece oppongono a questa trasmutazione valoriale, di nietzschiana memoria, la littera legis, da non intendersi però come un moloch assoluto, cui prestare acquiescenza, bensì come una necessaria guida per l’interprete che soprattutto in materia penale non può oltre ogni misura sostituirsi al legislatore.
Tornando alla metafora da cui siamo partiti, si capisce anche perchè la giurisprudenza utilizzi questi sistemi artificiali simili alla chirurgia estetica, giacchè in rerum natura esiste soltanto un altro modo per modificare l’esistente e cioè quello di creare una norma nuova e, proseguendo nella metafora, una nuova persona.
Per compiere tutto ciò, però, come nel caso della persona, in cui è necessario o un rapporto intimo fra due individui o, al limite, l’uso di strumenti artificiali assai complessi, a ben considerare anche nel caso della norma, perché possa vedere la luce una norma nuova, è necessario individuare una maggioranza parlamentare che la produca, che è molto simile alla metafora da cui siamo partiti ovvero sia individuare un rapporto naturale o artificiale da cui possa nascere la nuova persona.
Siccome in ogni caso la nascita è un fenomeno molto complesso e dipende da una molteplicità non preventivabile di fattori, nel caso di specie soprattutto di carattere politico, ne consegue che la strada più facile è quella di ricorrere alla…chirurgia estetica, cioè appunto rientrando nella realtà normativa, dando spazio alla giurisprudenza creativa, che così si assume l’importante compito di completare l’iter normativo soltanto abbozzato, come di recente è avvenuto in casi emblematici quali lo scambio elettorale politico-mafioso, da un lato, e le false comunicazioni sociali, dall’altro .
In entrambi i casi, infatti, l’intervento della giurisprudenza ha consentito di completare l’operato appena abbozzato del legislatore, ma il prezzo che si è pagato è stato molto alto cioè quello della messa in crisi delle basi dello Stato moderno cioè della dottrina della separazione dei poteri statuali.
A questo punto giunti, per cercare di rinvenire una soluzione che possa dirsi appagante di questo conflitto endemico tra legislatore, dottrina e giurisprudenza, crediamo sia opportuno inquadrare la tematica circa il significato, sempre seguendo la metafora cd. antropomorfica, dell’intervento giurisprudenziale in chiave di supplenza e quello, viceversa, da attribuire al legislatore.
Sotto questo profilo rispondendo all’interrogativo di fondo su dove vada il diritto penale, un autorevole esponente della cultura penalistica tedesca, cioè Thomas Weigend, giustamente ha rilevato come il diritto penale sia destinato a mutare il proprio volto.
Non si tratta più infatti di un “padre severo che punisce duramente alcune infrazioni, lasciando per il resto una certa libertà per la scelta dello stile di vita; sarà piuttosto come una madre premurosa, disposta ad accompagnare ed ammonire costantemente il proprio figlio” .
Ci sembra che queste ultime considerazioni si attaglino perfettamente alla distinzione di ruoli tra legislatore e giurisprudenza, in quanto il legislatore, soprattutto nel periodo di sua supremazia, indubbiamente si preoccupava di introdurre “dall’alto” norme penali, senza poi preoccuparsi soverchiamente del loro esito, anche perché trattavasi di un legislatore ancora di carattere sistematico.
Quando, viceversa, al legislatore codicistico è subentrato un suo alter ego totalmente asistematico e costruttivo soltanto di sottosistemi spesso del tutto scoordinati non solo fra loro, ma anche all’interno degli stessi, sempre seguendo la metafora antropomorfica, al padre severo ma distante, è subentrata la giurisprudenza come madre premurosa, soprattutto nella misura in cui, attraverso un’opera di estensione sino ai limiti del possibile della norma penale, tendeva a ricomprendervi, per quanto consentito, i fatti nel concreto verificatisi con la prospettiva di regolarli, proprio come si comporta una madre appunto premurosa, disposta ad accompagnare ed ammonire costantemente il proprio figlio.
Ecco allora spiegata fino in fondo la ragione per cui i giudici sono diventati i guardiani dell’etica pubblica, ma, nello stesso tempo, non può non rilevarsi, come la stessa esperienza insegna, che le medesime madri possono risultare anche oppressive e tiranniche per eccesso di cura ed invadenza.
Con ciò vogliamo in conclusione significare come la giurisprudenza in questo modo rischi di dar luogo ad un controllo irrazionale-casistico del contesto sociale che sicuramente non può soddisfare le complesse aspettative di tutela ed è questa la ragione ultima per cui non possiamo che invocare allo stato un più equilibrato rapporto tra legislatore e giurisprudenza, mediato però da una dottrina penalistica non più soltanto votata allo studio della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, ma anche attenta a riprendersi il ruolo, ormai quasi del tutto abbandonato, di guida della situazione spirituale dell’esperienza penalistica post-moderna.
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