Il sistema penale ed il neo-colonialismo criminologico

Di Andrea Baiguera Altieri -

 

  1. I fondamenti della Criminologia occidentale.

In epoca attuale, le due maggiori correnti di pensiero sono rappresentate dalla Criminologia critica e da quella post-coloniale. Secondo Baratta (1982)[1] non si può negare che la Criminologia novecentesca abbia senza dubbio seguito il fascino del marxismo, nel senso che “la Criminologia critica nasce […] dalla proposta –di derivazione marxiana- di inquadrare il crimine in una cornice interpretativa incentrata sul conflitto di classe (capitale-lavoro) […] mediato dallo Stato attraverso gli strumenti del Diritto e, in particolare, del Diritto Penale”. Tuttavia, non tutti hanno abbracciato una prospettiva laburista e fortemente politicizzata; in effetti Ciacci (1983)[2] afferma che fondare la Criminologia sulla lotta di classe costituisce “un assemblaggio di per sé difficile, nella misura in cui le visioni dell’ordine sociale appaiono sconnesse e scarsamente conciliabili”. In effetti, dopo lo scioglimento del blocco sovietico, risulta stanchevole ed eccessivamente retorico pensare alla devianza soltanto come un prodotto delle cc.dd. “ingiustizie sociali” cagionate da una non equa e democratica ripartizione delle ricchezze e del capitale.

Anche a parere di chi redige, l’ideologia politica non spiega appieno i processi di criminogenesi all’interno dei tessuti collettivi. D’altre parte, tale esasperazione filo-marxista è presente anche in Colvin & Pauly (1983)[3], i quali, scadendo nel ridicolo, sostengono che “le agenzie del controllo istituzionale reagiscono –reprimendo gli illegalismi- per ripristinare l’ordine della società capitalista, ossia per tutelare interessi riconducibili alle classi dominanti e per tenere sotto controllo le classi subordinate”. Analogamente, Rusche & Kirchheimer (1978)[4] parlano di un approccio criminologico “a misura di operaio”, poiché la reazione sociale del ceto padronale “contribuisce a produrre e, eventualmente, riprodurre un ordine contingente e situato”. Dunque, come si può notare, anche Rusche & Kirchheimer (ibidem) non disdegnano di costituire una Criminologia fortemente politicizzata ed astrattamente basata sulla ratio fuorviante della presunta “liberazione” dei lavoratori oppressi dal capitale. Pertanto, negli Anni Settanta ed Ottanta del Novecento prevaleva una prospettiva “gauchière” che mescolava le scienze del crimine alla non meglio precisata tutela del potere operaio.

Prescindendo, almeno nella presente sede, dalle personali opinioni politiche di ciascuno, pare a-tecnica e financo pericolosa siffatta introduzione dell’ideologia all’interno dell’ambito strettamente tecnico del Diritto Penale e della Procedura Penale. Negli Anni Duemila, finalmente, si è tornati ad una visione meno politicizzata del controllo sociale, poiché la criminalità è un fenomeno meta-temporale e meta-geografico che nulla ha a che vedere con il binomio capitale-lavoro. La maggior parte degli Autori contemporanei ha realizzato che il contenimento delle devianze anti-giuridiche è e rimane inevitabile ed a nulla servono illusioni adolescenziali sull’anarchia. La presenza di un ordine costituito è una necessità ed uno dei compiti del Criminologo è solamente quello di umanizzare la repressione collettiva della delinquenza. Altre ulteriori osservazioni circa la presenza, o meno, di ingiustizie sociali rischiano di scadere nel ridicolo e nella pura utopia. Similmente, Sbraccia & Vianello (2010)[5] rimarcano che la repressione sociale, quindi anche quella carceraria, null’altro sono se non un “compromesso” da accettare e, successivamente, da migliorare qualora possibile. Il Diritto Penale e l’istituzione carceraria sono visti da Sbraccia & Vianello (ibidem) alla stregua di un male necessario connotante ogni gruppo sociale. All’opposto, una Criminologia totalmente abolizionista e marxista non possiede alcun aggancio con la realtà fattuale e perenne del crimine.

Altrettanto realista e disincantato è pure Cohen (1988)[6], il quale prende le distanze “dalla tradizione del positivismo criminologico, spesso completamente ripiegato sul tentativo di individuare, magari in chiave predittiva e preventiva, le cause del comportamento criminale di soggetti o gruppi sociali […]. [Bisogna criticare] un ordine sociale classista e discriminatorio [che, quindi, reca] ad approcci socio-criminologici orientati al consensualismo e ad una visione finalistica dell’ordine sociale”. Pertanto, Cohen (ibidem) si discosta dall’illusione di una società completamente priva di delinquenza. Tale natura fisiologica del crimine contraddice pure il mito di Marx di una collettività perfettamente pacificata e paradisiaca. Soffermarsi sulla ratio della lotta tra le classi sociali significa perdere di vista il fine migliorativo e non abolizionista della Criminologia. P.e., non si comprende se e come una lettura politicizzata del carcere possa poi condurre a delle concrete migliorie nel/sul trattamento carcerario. Cohen (ibidem), giustamente, asserisce che, nelle Criminologie di tutti i tempi, è necessaria una “sociologia conflittuale della norma e della devianza”, in tanto in quanto è ineliminabile una più o meno vigorosa frizione tra l’apparato dirigente e gli utenti. Non esistono contratti sociali in grado di annullare quella che Christie chiamava “una modica quantità di crimine”. D’altra parte, con encomiabile coraggio, Ruggiero (1999)[7] ha postulato un’auto-limitazione della Criminologia, la quale non estingue, bensì gestisce l’ontologico jato tra “delitti dei deboli e delitti dei potenti”. Del pari, Hillyard & Pantazis & Toms & Gordon (2004)[8] rimarcano che il c.d. “crimine” altro non è che un “danno sociale” presente in tutte le formazioni umane, a prescindere da eventuali lotte di classe o da presunti riscatti romantici della “classe operaia”.

Assai interessante è la posizione, tutt’altro che categorica, di Traverso & Verde (1981)[9], a parere dei quali la Criminologia “non è solo una scienza puramente ancillare al controllo penale. [Dopotutto,] la Criminologia positivista, nella sua ricerca di fattori eziologici che determinano le condotte illegali, ha contribuito a produrre una visione critica della società e dell’ordine sociale. Esistono, quindi, delle aree di sovrapposizione [tra le varie discipline]”. Pure Oriola (2005)[10] lascia intendere che l’approccio marxista non va esasperato, tuttavia è pur vero che “oggi disponiamo di teorie del crimine, come quella della disorganizzazione sociale, che sono riuscite nel miracolo di conoscere i criminali a partire da dove questi vivono e che, insieme a teorie criminologiche basate sulla classe sociale, come quelle di Cloward & Ohlin (1961), Miller (1962) e altri ancora, collocavano il crimine tra i poveri ed i lavoratori di rango inferiore, che sono anche felicemente, incidentalmente e sovrabbondantemente neri”. Come si può notare, Oriola (ibidem) non ipostatizza il concetto di “lotta di classe”, ciononostante egli riconosce alle Dottrine marxiste l’innegabile merito di aver analizzato il ruolo della razza, della precarietà abitativa, del lavoro sottopagato e di molte altre variabili non decisive, ancorché discretamente influenti sulla criminogenesi. Decisivo è stato pure l’apporto del progressista Cunneen (2011)[11], secondo cui buona parte della criminalità contemporanea è frutto di un “post-colonialismo” che ha generato spinte criminali in “persone marginalizzate” a causa degli effetti della macro-economia coloniale. Anche in questo caso, Cunneen (ibidem) analizza la variabile del “ceto” sociale, senza, tuttavia, postulare successivi corollari di matrice puramente politica. Utile può essere anche Mezzadra (2008)[12], che analizza gli svantaggi criminogenetici dei maghrebini francesi, ma senza, tuttavia, esagerazioni politicizzate inutili e sterilmente retoriche.

  1. Il concetto di Criminologia coloniale.

Agozino (2004)[13] sostiene che “l’armamentario di definizioni e prassi del sistema penale è stato ampiamente utilizzato in vista di istituire e stabilizzare [ogni] ordine coloniale dalla modernità in poi. Il pensiero criminologico tradizionale ha fornito, in questo senso, un rilevante supporto ideologico e potrebbe persino essere descritto come uno degli strumenti del suddetto armamentario”. Anzi, come sottolineato da Fanon (1962)[14], la Criminologia, fino ai primi del Novecento, è stata permeata da un sottile razzismo, in tanto in quanto “accanto al mito del buon selvaggio, creatura primitiva ed ingenua, meritevole di un sostegno illuminato e propedeutico al suo cammino di civilizzazione, si è sempre sviluppata la narrazione del selvaggio cattivo, che ai benefici della civilizzazione coloniale oppone resistenza, in virtù della sua natura primordiale, istintuale, predatoria”.

Gli asserti di Fanon (ibidem) rinvengono conferma nella storia del colonialismo italiano in Etiopia. Infatti, la retorica fascista insisteva, in maniera ossessiva, nel rimarcare lo jato tra la civile Italia e la retrograda Abissinia, povera e bisognosa di interventi assistenziali esterni. A tal proposito, a prescindere dallo specifico esempio dell’Italia fascista, Godfrey & Dunstall (2005)[15] hanno giustamente notato che “questa opposizione, che andrebbe ovviamente posta in relazione ad un quadro politico, può invece essere ridotta e ricondotta al campo delle fattispecie di reato. La questione […] è quella della criminalizzazione delle forme di resistenza. Se gli attori sociali che le incarnano sono sottoposti ad un processo coloniale di inferiorizzazione, i dispositivi di difesa sociale possono perfino esondare nel terreno dello stato di eccezione”. Il pensiero corre, a titolo emblematico, alla seconda guerra del Golfo. Oppure ancora, si ponga mente alla rivolta catalana nei confronti del potere centralista di Madrid. Lo stereotipo, in effetti, è sempre fondato sul ruolo mitizzato del “salvatore” chiamato dal destino ad emancipare una civiltà inferiore e sottosviluppata. Un altro esempio utile è quello della Francia, in cui, come evidenziato da Sbraccia (2017)[16] “l’attuale dibattito in tema di radicalizzazione e terrorismo evidenzia una forte polarizzazione verso la collocazione delle questioni in area criminologica, ovvero delle relative strategie ed azioni nel campo dei delitti”. P.e., nella Francia di De Gaulle, le aspirazioni indipendentiste delle colonie africane venivano reputate alla stregua di una vera e propria eversione nei confronti dell’ordine legalmente costituito. In effetti, anche nella fattispecie dell’ex Yugoslavia, negli Anni Novanta del Novecento, l’imperialismo serbo era da taluni reputato come una reazione legale avverso alle spinte secessioniste dei territori confederati. È del resto, perenne il dilemma internazionalistico se considerare la secessione quale “reato”, oppure quale legittimo evento di matrice puramente storico-politica.

Interessante è pure il fenomeno del brigantaggio nella parte meridionale del neonato Regno d’Italia. Lombroso, infatti, criminalizzava i briganti, mentre, nel concreto, tale fenomeno scaturiva dalle profonde diseguaglianze cagionate da un’unificazione definibile come fallimentare e, anzi dittatoriale sotto molti profili. D’altra parte, non si può nascondere che la Criminologia novecentesca ha spesso criminalizzato gruppi politici per il solo fatto che essi contestavano determinate forme di sovranità statuale. Anche Lynch (2000)[17] parla di “power of oppression”, nel senso che “queste tecniche di stigmatizzazione, funzionali alla predisposizione di peculiari dispositivi di controllo, definiscono, in realtà, il rapporto tra disciplina criminologica e ordine sociale”. Sicché, la Criminologia diviene “instrumentum regni” nella misura in cui “etichetta” la presunta illegalità di soggetti o gruppi ideologici che contestano l’assetto socio-politico storicamente formatosi.

La presenza di un approccio criminologico dittatoriale ed insofferente verso le contestazioni è individuata pure da Durkheim (1963)[18], a parere del quale “la funzione costitutiva del criminale come soggetto in condizione di riattivare, in chiave difensiva, la coesione nelle società contemporanee (prevenzione generale positiva) rimanda alla necessità di un criterio di distinzione fondamentale, che segni i confini materiali e simbolici della normatività. Dotare questo soggetto di caratteristiche specifiche (fisiognomiche, somatiche, culturali, linguistiche, psichiche) non può che agevolare questo processo distintivo”. Come si può notare, Durkheim (ibidem) condanna quella che Ruggiero chiamerebbe “Criminologia dei potenti”. Ovverosia, esistono Criminologi che si pongono supinamente al servizio di un determinato ordinamento socio-politico, difeso strenuamente sino al punto di confondere il dissenso con la delinquenza. In tali Dottrinari, come fu nel caso di Lombroso, chi contesta l’apparato del potere viene automaticamente qualificato alla stregua di un delinquente socialmente pericoloso.

P.e., il pensiero corre all’attività violenta di repressione agita da parte del regime russo degli Anni Duemila, nel quale non si distingue tra “contestazione” e “reato” criminologicamente etichettato.

Quanto or ora esposto, rinviene piena conferma nei regimi coloniali, ove l’elevata civiltà del colonizzatore è giustapposta alla profonda e selvaggia inciviltà del colonizzato. Tuttavia, nei tempi più recenti, il fenomeno della colonizzazione non è fondato esclusivamente sulla violenta repressione del dissenso popolare. Infatti, Armellin (1975)[19] nota che “la violenza e la coercizione risulterebbero incompatibili con le finalità economiche delle imprese coloniali -di per loro predatorie-, soprattutto in quanto molto costose e compromissorie rispetto all’obiettivo di estrarre plusvalore dalla forza lavoro colonizzata, superando l’architrave del colonialismo pre-moderno, ovvero la riduzione in schiavitù”. Dunque, secondo Armellin (ibidem), gli ordinamenti coloniali contemporanei necessitano di raffinati ed accattivanti strumenti macro-economici che rendano meno pesante la colonizzazione nei confronti delle fasce popolari più basse. In altre parole, Cunneen (2001)[20] sintetizza che “i piani coloniali moderni […] necessitano di fluidificare le relazioni di conquista anche attraverso strategie attributive. Questa considerazione ha un’immediata rilevanza in termini criminologico-critici. Infatti, è attraverso le funzioni poliziali che questa strategia prende forma”. Eguale è pure il parere di Staples (1975)[21], ovverosia “se la forza militare può essere decisiva nell’appropriazione del territorio e nel mantenimento dell’ordine immediatamente successivo, essa deve poi tramutarsi in strumento di gestione; da un lato, garantendo il presidio del confine spaziale tra i colonizzati ed i colonizzatori; dall’altro configurandosi come terreno di una prima ibridazione (istituzionale) tra gli ultimi colonizzatori ed i primi colonizzati”.

Come osservato da Cunneen (2001) e da Staples (ibidem), nessun regime coloniale, nel lungo periodo, può fondarsi sulla ratio della violenza. È necessario il passaggio da una coercizione fisico-materiale ad una collaborazione ove la cultura colonizzatrice venga mescolata a quella colonizzata. Dunque, è quantomai indispensabile il passaggio da un’aggressività di stampo militare ad una di tipo morale e politico. Staples (ibidem) parla dell’utilità pacificatrice di una “strategia di inclusione dei subordinati”. P.e., Fanon (ibidem) afferma che la Francia, dal 1954 in poi, seppe attuare politiche di integrazione in Algeria, sicché, verso la metà del Novecento, le élites autoctone algerine erano giunte al punto di accettare svariati profili della cultura francofona. Viceversa, una costante repressione militare avrebbe recato a risultati controproducenti. Armellin (ibidem) afferma che “la logica distintiva della Criminologia, quella che istituisce e rinforza la separazione artificiale tra classi laboriose e classi pericolose, è coloniale di per sé e quindi si presta benissimo ad essere implementata all’interno di un processo di colonizzazione”. Di nuovo, la Criminologia è indebitamente chiamata a difendere l’ordine politico costituito.

  1. La Criminologia nei contesti neo-colonialisti “interni”.

Franz Fanon è senza dubbio il massimo studioso di come la Criminologia possa trasformarsi, più o meno consapevolmente, in uno strumento di egemonia nei confronti delle minoranze colonizzate. Anche all’interno degli ordinamenti europei e nordamericani contemporanei esistono sempre dei rapporti tra dominatori e dominati, giacché il potere statale è fisiologicamente concentrato nelle mani di gruppi che gestiscono l’ordine e la legalità. Entro tali contesti neo-coloniali, sovente la Criminologia è chiamata a criminalizzare, dunque a reprimere, le devianze, intese, però, come atti di ribellione nei confronti del regime di fatto insediatosi. Sicché, la contestazione diviene reato o, comunque, l’opposizione verso la classe dominante è trasformata in atto sociale indesiderato, pur se siffatta anti-socialità altro non è se non una semplice contestazione anti-colonialista e filo-democratica. Quanto testé descritto viene denominato da Fanon (1967)[22] “colonialismo interno” e si fonda, sempre secondo l’Autore or ora menzionato, su almeno tre “pilastri”:

  1. l’appropriazione delle risorse (con particolare riferimento al contenimento urbano di una forza lavoro a basso costo)
  2. la disintegrazione della cultura locale o non-dominante
  3. l’istituzione di appositi apparati amministrativi e poliziali che rendano funzionale e flessibile la distinzione tra gli ultimi colonizzatori ed i primi colonizzati

Tuttavia, è molto importante sottolineare che il nuovo “colonialismo interno” si rivolge alle minoranze e non più a popolazioni straniere bellicamente soggiogate. P.e., in modo assai pertinente, Memmi (1965)[23] evidenzia che, in Francia e negli USA, “il ghetto urbano [dei neri e dei maghrebini] […] è una internal colony, sottosviluppata economicamente, controllata politicamente (dalle élites bianche e dagli autoctoni che collaborano) e gestita militarmente dalle forze dell’ordine”. Le banlieux parigine, composte prevalentemente da nordafricani, corrispondono perfettamente all’immagine della internal colony delineata da Memmi (ibidem).

A parere di Blauner (1969)[24] “[l’internal colony, ovvero] un dispositivo integrato di [iper] controllo produce tre modalità possibili di adattamento psico-sociale del colonizzato: l’identificazione con l’aggressore (propedeutica ad una strategia assimilazionista); l’auto-distruttività (soggettiva e proiettata all’interno della comunità dei colonizzati); la reattività violenta contro il potere coloniale [puntualmente repressa dal Diritto Penale coloniale e dal relativo apparato composto da PG, AG e carcere, ndr]”. Dunque, sempre secondo Fanon (1967), all’autoctono non resta che la “lotta politica” contro il regime coloniale, oppure l’“auto-alienazione” dal proprio gruppo, al fine di confluire nei comportamenti, nelle abitudini e nelle forme mentali dei soggetti colonizzatori. Naturalmente, la prima opzione, ovverosia la “lotta politica” sarà criminologicamente etichettata alla stregua di un grave atto di eversione penalmente perseguibile.

La summenzionata colonizzazione interna reca un aspetto positivo ed uno negativo. Il profilo positivo, come osservato da Mills (1997)[25] consta nel fatto che il colonizzato non è alienato, ovvero ridotto in schiavitù, per soli fini lavorativi, bensì al sottomesso è data la possibilità di staccarsi dalla cultura d’origine per poter entrare in una nuova civiltà, pur se tale scambio civilizzatorio è frutto di un’imposizione. Il profilo negativo, come rimarcato da Vianello (2006)[26] è che “[spesso] l’adattamento auto-distruttivo si traduce nel connubio classico tra forme di tossicodipendenza (alcolismo incluso), condotte predatorie e opportunistiche e comportamenti violenti. [Tale connubio] affligge i residenti del ghetto, circondati da un cordone poliziale che non è strategicamente impegnato nel controllo degli illegalismi all’interno del ghetto, bensì nel presidio di confini materiali e simbolici dello stesso”. Quanto asserito da Vianello (ibidem) si adatta molto bene alla situazione delle grandi metropoli statunitensi e indiane.

Assai veritiero è pure quanto realisticamente affermato da Du Bois (2010)[27], ovverosia “[nelle nuove società colonialiste] assume una rilevanza cruciale la composizione tra differenza di classe e linea del colore. In sintesi, le classi pericolose da controllare in Europa, Australia ed America settentrionale assumono una precisa connotazione etnico-razziale. La matrice razzista ampiamente elaborata come criterio di legittimazione delle imprese coloniali, ritorna, quindi, utile e spendibile nella misura in cui il controllo penale e poliziale debba dirigersi verso gruppi di minoranza”. Du Bois (ibidem) ha giustamente sottolineato che, nei nuovi ordinamenti coloniali, le minoranze etniche, ma anche quelle culturali, vengono spinte verso l’alienazione o l’auto-alienazione, in tanto in quanto la sotto-cultura e la diversità etnica vengono percepite alla stregua di fattori destabilizzanti avverso all’ordine costituito. Il colonialismo mira all’omologazione e, attraverso la Giuspenalistica ed il carcere reprime ogni tentativo di ribellione. Entro un consimile contesto anti-democratico, il colonizzatore richiede al Criminologo di agevolare la conformazione ed il predominio della civiltà alloctona.

È forse utile citare pure l’afroamericano Tatum (1994)[28], a parere del quale Fanon (1962 e 1967) non ha sufficientemente utilizzato talune utili categorie della Sociologia, come, ad esempio, la variabile basilare della precarietà abitativa e del connesso degrado urbano. P.e., Tatum (ibidem) nega l’irreversibilità dell’alienazione/auto-alienazione dei colonizzati. Oppure, un altro tema frainteso da Fanon (1962 e 1967) è la presunta necessità del carattere violento della lotta politica contro il colonialismo. In effetti, non sempre la resistenza organizzata, nelle colonie interne, assume i connotati della violenza fisica o materiale. Secondo Tatum (ibidem), soprattutto nei ghetti neri statunitensi, “è fondamentale valorizzare forme di resistenza […] all’oppressione strutturale che prendano corpo intorno alle istituzioni scolastiche ed ecclesiastiche, o che si possano attribuire all’emersione di gruppi informali non necessariamente politicizzati né rivoluzionari”.

Questi asserti di Tatum (ibidem) paiono attagliarsi perfettamente alle lotte degli Afroamericani statunitensi negli Anni Sessanta del Novecento. Anche in tal caso, infatti, i seguaci del pastore protestante Martin Luther King misero in atto forme non violente di decolonizzazione interna. Oppure ancora, si ponga mente alle riforme laburiste in Germania, ove il fattore etnico, nel secondo dopoguerra, non è più così determinante, mente senz’altro centrale è la ratio della ripartizione equa delle opportunità lavorative, tanto per gli immigrati quanto per la popolazione indigena. Anzi, in molti ordinamenti sociali, la mescolanza razziale ha ormai recato ad un assetto sociale in cui gli stranieri di seconda generazione hanno facilmente superato la problematica della “alienazione/auto-alienazione”.

Senza alcun dubbio, la situazione è assai migliorata, con il passare dei decenni. Come osserva Wacquant (2002)[29], in epoca attuale la c.d. “underclass” patisce meno la segregazione urbana, come dimostra il discreto incremento scolastico dei bambini provenienti da famiglie alloctone. Tuttavia, come notato da Garland (2001)[30] esiste tutt’oggi un sistema penale concentrato sul “sé” e non sull’”altro”. In effetti, Sbraccia (2013)[31] rimarca che “è riemersa la potenza narrativa della mostrificazione dell’altro […]. La risposta, a parere di chi redige, consta nella necessità di una Criminologia cristiana che riscopra il valore etico dell’accoglienza. L’assimilazione culturale, se ben gestita, reca ad una preziosa pacificazione sociale che protegge lo straniero dalla ghettizzazione urbana e dalle devianze anti-sociali e/o anti-normative.

[1]Baratta, Criminologia critica e critica del diritto penale, Il Mulino, Bologna, 1982

[2]Ciacci, Interazionismo simbolico, Il Mulino, Bologna, 1983

[3]Colvin & Pauly, A Critique of Criminology: towards an Integrated Structural-Marxist Theory od Delinquency Production, in American Journal of Sociology, 89, 1983

[4]Rusche & Kirchheimer, Pena e struttura sociale [1939], Il Mulino, Bologna, 1978

[5]Sbraccia & Vianello, Sociologia della devianza e della criminalità, Laterza, Roma, 2010

[6]Cohen, Against Criminology, Transaction Books, New Brunswick, 1988

[7]Ruggiero, Delitti dei deboloi, delitti dei potenti: esercizi di anti-criminologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1999

[8]Hillyard & Pantazis & Tombs & Gordon, Beyond Criminology: Talking Harm Seriously, Pluto Press, London, 2004

[9]Traverso & Verde, Criminologia critica, CEDAM, Padova, 1981

[10]Oriola, Biko Agozino and the Rise of Post-Colonial Criminology, in African Journal of Criminology & Justice Studies, 2, 1, 2005

[11]Cunneen, Postcolonial Perspectives for Criminology, in Bosworth & Hoyle (a cura di), What is Criminology, Oxford University Press, Oxford, 2011

[12]Mezzadra, La condizione postcoloniale, Ombrecorte, Verona, 2008

[13]Agozino, Counter-colonial Criminology: a Critique of Imperialist Reason, Pluto Press, London, 2004

[14]Fanon, I dannati della terra [1961], Giulio einaudi, Torino, 1962

[15]Godfrey & Dunstall (a cura di), Crime and Empire 1840-1940: Criminal Justice in Local and Global Context, Willan, Cullompton, 2005

[16]Sbraccia, Radicalizzazione in carcere, : sociologia di un processo altamente ideologizzato, in Antigone, 1, 2017

[17]Lynch, The power of Oppression: understanding the History of Criminology as a Science of Oppression, in Critical Criminology, 9, 1-2, 2000

[18]Durkheim, La divisione del lavoro sociale [1865]. Edizioni di Comunità, Milano, 1963

[19]Armellin, La condizione dello schiavo: autobiografie degli schiavi nei negli Stati Uniti, Giulio Einaudi, Torino, 1975

[20]Cunneen, Conflicts, Politics and Crime: Aboriginal Communities and the Police, Allen and Unwin, St. Leonards, 2001

[21]Staples, White Racism, Black Crime and American Justice: an Application of the Colonial Model to Explain Crime and Race, in Phylon, 36, 1975

[22]Fanon, A Dying Colonialism, Grove Press, New York, 1967

[23]Memmi, The Colonizer and The Colonized, Beacon Press, Boston, 1965

[24]Blauner, Internal Colonialism and Ghetto Revolt, in Social Problems, 26, 4, 1969

[25]Mills, The Racial Contract, Cornell University Press, New York, 1997

[26]Vianello, (a cura di), Ai margini della città: forme del controllo e risorse sociali nel nuovo ghetto, Carocci, Roma, 2006

[27]Du Bois, Sulla linea del colore: razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino, Bologna, 2010

[28]Tatum, The Colonial Model as a Theoretical Explaination of Crime and Delinquency, in Sulton (a cura di), African-American Perspectives on Crime Causation, Criminal Justice Administration and Crime Prevention, Sulton Books, Englewood, 1994

[29]Wacquant, Simbiosi mortale: neoliberismo e politica penale [2000]. Ombrecorte, Verona, 2002

[30]Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society, University of Chicago Press, Chicago, 2001

[31]Sbraccia, Migrazioni e criminalità: nessi causali e costruzioni sociali. In Mezzadra & Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati: migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Ombre corte, Verona, 2013

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