Riflessioni sul delitto di tortura introdotto dalla L.14 luglio 2017 n.110.
Di Andrea Racca -
Art. 613 bis (Tortura) — Art. 613-bis (Tortura). – Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
— Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.
— Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.
— Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.
— Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta.
— Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo.
***
Art. 613-ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».
Contesto sovranazionale.
L’ordinamento italiano con la recente Legge 14 luglio 2017 n.110, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.166 del 18 luglio 2017, ha introdotto agli artt. 613 bis e 613 ter del codice penale i reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura, a seguito di un lungo ed articolato iter parlamentare, di cui la Commissione giustizia, già nel 2014, aveva svolto un’indagine conoscitiva, nel corso della quale aveva sentito l’allora Capo della Polizia, dott. Alessandro Pansa, e numerosi rappresentanti dei sindacati della Polizia di Stato e della Polizia penitenziaria, rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati e dell’Unione delle camere penali, il dott. Alfredo Mantovano, giudice presso la Corte d’Appello di Roma, i professori di diritto penale Francesco Viganò e Tullio Padovani, il rappresentante del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa ed i rappresentanti delle associazioni Amnesty International Italia e Antigone.
Se sin dal secondo dopo guerra quasi tutti i trattati internazionali, che sanciscono l’inviolabilità della persona umana, impongono che nessun individuo possa essere sottoposto a tortura o a trattamenti umani degradanti, in particolare, la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla L. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (L. 232/1999); la recente introduzione nel codice penale di due specifiche fattispecie punitive del delitto di tortura, integra il divieto da sempre statuito a livello sostanziale con una specifica previsione punitiva.
Non si può negare come questa introduzione nel sistema giuridico italiano sia stata sollecitata soprattutto a seguito di due sentenze della CEDU che hanno visto condannata l’Italia per la violazione degli obblighi sostanziali e procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU, sia nel caso Cestaro contro Italia[1], sia in quello Bartesaghi, Gallo e altri contro Italia[2], ove la Corte ha proceduto a censurare proprio l’assenza di una fattispecie di reato di tortura nel sistema penale italiano.
Il nostro Paese si è così finalmente adeguato alla previsione generale della Convenzione ONU del 1984, che prevedeva l’obbligo per gli Stati di legiferare, affinché qualsiasi atto di tortura fosse espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno (articolo 4)[3]. Tuttavia, non sono mancate polemiche e critiche a questo recepimento, che oltre alla tardività, hanno coinvolto anche il contenuto normativo, tanto che il Presidente della Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa[4] in data 26 giugno 2017 ha fatto pervenire ai Presidenti della Camera, del Senato e della Commissione Giustizia una lettera di forti preoccupazioni, in ordine alla formulazione del reato di tortura, poiché a suo dire la formulazione proposta poteva interpretarsi divergente rispetto a quella adottata dalla CAT e delineata dalla giurisprudenza delle Corti internazionali, con il rischio di indebolire il carattere prescrittivo della norma[5] e disattendere il valore finalistico di tutela della persona.
Il contenuto della norma.
La fattispecie delineata dal nuovo articolo 613 bis c.p. accoglie una duplice nozione di tortura che, come rilevato da una certa dottrina, potrebbe definirsi «a disvalore progressivo»[6]: ovvero sia nella forma del delitto comune, ove il soggetto agente è un semplice cittadino, sia nella c.d. “tortura di stato”, ove l’agente è invece un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. La collocazione sistematica della fattispecie all’interno del Titolo XII del codice penale, relativo ai delitti contro la persona, e più precisamente nel Capo III dei reati contro la libertà individuale, ne qualifica una portata plurioffensiva, come lesione all’integrità (fisica e morale) dell’individuo.
L’elemento oggettivo della fattispecie può individuarsi in qualsiasi azione (violenza o minaccia) grave e crudele, tale da cagionare sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa. La previsione sanzionatoria integra una pena base per il reato comune con la reclusione da quattro a dieci anni, se il fatto è commesso mediante più condotte, ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona, mentre per il reato specifico del pubblico ufficiale la pena è aumentata con la reclusione da cinque anni a dodici.
Ad ogni modo, il concetto di “verificabile trauma psichico” non facilita di certo l’interpretazione della norma, sembrando riproporre le medesime criticità poste dalla nozione di “perdurante e grave stato di ansia” del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. Recuperando quanto, sulle orme della sentenza della Corte Costituzionale n.172/2014, la Sez. V della Suprema Corte di Cassazione n. 45184 del 11 novembre 2015 ha definito l’interpretazione nomofilattica circa gli eventi dalla cui verificazione dipende consumazione del delitto ex 612 bis c.p., in via analogica dovrebbe intendersi il “verificabile trauma psichico” come svincolato da un obiettivo riscontro nosografico del trauma subìto, in termini quantomeno di disturbo della personalità, configurandosi così un’applicazione più estensiva della fattispecie, al punto da fare ritenere penalmente rilevante anche la privazione del cibo o del sonno. D’altro canto se il trauma psichico delineato dalla fattispecie si intendesse equivalente ai soli disturbi medicalmente accertabili, l’applicazione del nuovo reato si configurerebbe indubbiamente in termini assai più restrittivi[7], estraniando dalla previsione punitiva tutti quegli attentati all’integrità del soggetto di cui più difficilmente sono documentabili.
L’aggettivo “gravi”, reintrodotto dalla Commissione giustizia del Senato in seconda lettura, se ha destato dubbi ermeneutici circa la propria valenza connotativa, non può che accentuare la rilevanza e gravità della condotta in termini di gravità o particolare intensità, degli eventi causalmente connessi alle pratiche di tortura. Tuttavia, interpretando il concetto di gravità alla stregua di un elemento normativo, con rinvio espresso alle previsioni dell’art. 339 c.p., si potrebbero comunque individuare dei criteri oggettivi utili ad orientare l’attività del giudicante, evitando per quanto possibile eccessi di discrezionalità legati a percezioni solo soggettive del termine.
Il testo, così come codificato, ha destato le riflessioni di gran parte della dottrina, sin prima della sua applicazione concreta. Il comma primo qualifica indubbiamente la natura e la durata della condotta tipica: le espressioni “più condotte” e (in alternativa) “trattamento disumano e degradante la dignità umana” conducono all’interno della sfera di punibilità «sia la condotta attiva che quella omissiva»[8], configurando la fattispecie sia con la singola condotta di tortura, sia con una pluralità atti (commissivi o omissivi). Il riferimento alla persona offesa come colui che è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di quest’ultimo impongono l’accertamento dell’esistenza di un rapporto qualificato, quale elemento implicito di fattispecie, idoneo a imporre certi obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della persona offesa. La locuzione “privato della libertà personale” pare, poi, alludere alla limitazione della libertà in forza di un provvedimento giurisdizionale, come accade in occasione dell’esecuzione di misure cautelari.
Tuttavia, il comma terzo, in ausilio alle scriminanti già precedentemente codificate agli artt. 51 e 51 c.p., prevede una precisa limitazione dell’ambito di punibilità del nuovo 613 bis c.p. (recuperando già quanto previsto all’art. 1 CAT[9]), di cui la nozione di “sofferenze” pare diversa e non sovrapponibile rispetto a concetti quali “acute sofferenze fisiche” e “verificabile trauma psichico” di cui al comma primo. L’intento del legislatore sembra quello di precisare che non sia la sofferenza l’elemento specifico della nuova fattispecie, che ben può sussistere in casi di privazione della libertà, bensì le condotte violente e crudeli.
Continuando nell’esame della novella L. 110/2017, l’art. 2 modifica, inoltre, l’art. 191 c.p.p. relativo alle “prove illegittimamente acquisite”, attraverso l’aggiunta del comma 2-bis, che pone il divieto di utilizzare informazioni o dichiarazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo contro le persone accusate di tale delitto ed al solo fine di provarne la penale responsabilità. L’art. 3 è, infine, destinato a modificare l’art. 19 del Testo unico immigrazione, in materia di non refoulement e, da ultimo, l’art. 4 interviene in materia di immunità, anche di diritto internazionale, vietandone il riconoscimento a favore di stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per tortura in altro Stato o da un Tribunale internazionale.
Se ancora una volta l’Italia ha recepito le norme internazionali e comunitarie con grande ritardo e con previsioni normative non chiarissime, tuttavia la fattispecie introdotta riveste una fondamentale importanza nella tutela dei diritti fondamentali, tanto che non può essere sminuita, né astrattamente criticata per l’utilizzo di nozioni con significati più o meno evocativi, la cui applicazione giurisprudenziale chiarirà la concreta portata ermeneutica. Occorre, inoltre, precisare come se l’art. 1 CAT offre una definizione di tortura connotata dalla presenza dell’avverbio “intenzionalmente”, che ne precisa l’intento finalistico della norma ovvero di punire le condotte che con crudeltà sono volte ad ottenere informazioni o confessioni, di punire la vittima per un atto che ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o su un terzo, ovvero per qualunque altro motivo di discriminazione; la scelta del legislatore italiano, in virtù del principio personalistico che orienta l’intero ordinamento, è quella di preservare la persona da qualsiasi aggressione ai suoi diritti, indipendentemente dal fine della condotta e dalla qualifica del soggetto agente configurando una specifica responsabilità penale per il delitto di tortura con il solo dolo generico, sia in relazione alla fattispecie comune, sia a quella commessa dal pubblico ufficiale.
Dal testo del disegno di legge, a seguito dell’ultima interpolazione del Senato, è stata infatti soppressa non solo la previsione del dolo specifico, ma anche lo stesso termine intenzionalmente della CAT, che una certa dottrina lo riteneva elemento di tipizzazione della fattispecie, idoneo a distinguere deliberate pratiche di tortura da semplici lesioni, minacce o violenza privata, anche se letto in chiave strumentale per raggiungere fini ulteriori. Ad ogni modo, dato il tenore del primo comma e della pregnanza della condotta tipica, pare comunque dubbia la configurazione del delitto con il dolo eventuale. Se la nuova legge, deve la propria approvazione dalle per i fatti di Genova, ovvero delle violenze commesse dagli agenti di polizia all’interno della scuola Diaz-Pertini del 2001, la scelta a favore del dolo generico, unitamente alla necessaria reiterazione della condotta, che pare comunque potersi individuarsi anche in relazione ad un singolo e specifico evento, il coordinamento dell’art. 613-bis c.p. con il reato di maltrattamenti risulta difficoltoso, tanto che la previsione del 572 c.p. pare totalmente assorbita dalla nuova incriminazione nella c.d. tortura di stato, tanto da qualificarsi come elemento costitutivo di una fattispecie progressiva, imponendo la necessità del Giudicante di uno specifico esame del fatto concreto.
A prescindere dal tenore delle critiche comunque ammissibile, tanto più quando si opera in tema di diritti fondamentali, e indipendentemente dalla scelta di limitare la fattispecie ad una soggettività o intenzionalità propria, che incide comunque sulla funzione selettiva della condotta tipica della norma, il tassello normativo introdotto deve essere valutato come un indispensabile strumento volto a tutelare l’individuo da pratiche o trattamenti disumani o degradanti di qualsiasi genus, la cui portata dovrà sempre rifarsi alle previsioni costituzionali e sovranazionali, che compongono quella garanzia universalistica di tutela integrale della persona umana. Ancora una volta il coordinamento legislativo non è stato pienamente colto nell’introduzione normativa, ma indubbiamente centrata la protezione del bene giuridico, che stigmatizza la tortura come una pratica antigiuridica e antidemocratica, che viola nel più profondo la matrice dei diritti fondamentali, ovvero la stessa dignità umana, demandando poi alla giurisprudenza il compito, di certo non facile, di connotare i precisi contenuti dell’art. 613 bis c.p, qualificando i rapporti, le analogie e le affinità con le altre previsioni penali in tema.
[1] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. IV, sent. 7 aprile 2015, Cestaro v. Italia. Vd. F.S.CASSIBBA, Violato il divieto di tortura: condannata l’Italia per i fatti della scuola “Diaz-Pertini”, in Diritto penale contemporaneo, 27 aprile 2015. Il caso trae origine dal ricorso presentato da un cittadino italiano, sessantaduenne all’epoca dei fatti oggetto di doglianza, che era stato brutalmente percosso e aveva subìto numerose, gravi lesioni, che ne hanno comportato una parziale invalidità permanente. Più precisamente, il ricorrente lamentava di essere stato vittima di violenze e abusi qualificabili come tortura durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz Pertini di Genova, e sosteneva che i responsabili di quegli atti non fossero stati adeguatamente puniti, anche in considerazione della mancata adozione, da parte dello Stato, delle misure necessarie per reprimere fatti di tortura.
[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi, Gallo e altri v. Italia. Vd. F. CANCELLARO, Tortura: nuova condanna dell’Italia a Strasburgo, mentre prosegue l’iter parlamentare per l’introduzione del reato, in Diritto Penale contemporaneo, 29 giugno 2017.
[3] Per tortura ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Convenzione ONU si intende “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate“.
[4] Il Presidente della Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, nel giugno 2017 ha avanzato come la proposta di legge in discussione in Parlamento per l’introduzione del reato di tortura fosse contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, alle raccomandazioni della Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti (CPT) e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura (UNCAT). Il testo della lettera inviata è reperibile sul sito del Consiglio d’Europa.
[5] La principale censura risultava in relazione richiesta di reiterazione delle condotte, al rischio di indebolire l’azione di prevenzione e contrasto soprattutto in merito alla c.d Tortura di Stato, agli spazi di impunità legati al problema della prescrizione, amnistia, indulto o comunque della potenzialità di meccanismi di fuga dalla sanzione.
[6] I. MARCHI, Il delitto di tortura, prime riflessioni a margine del nuovo art. 613 bis c.p., in Dir. pen. cont., 31 luglio 2017, cit., pag. 2.
[8] D. FALCINELLI, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, in Arch. Pen., 3/2017, 25 settembre 2017, cfr.
[9] L’ultimo inciso dell’art. 1 CAT precisa che la definizione di tortura ivi offerta non include: “pain or suffering arising only from, inherent in or incidetal to lawful sanctions”.
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